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Sabato 14 gennaio il ministro dell’Interno Piantedosi sarà in prefettura a Trieste in occasione del Comitato per l’ordine e la sicurezza.
Al centro della discussione la rotta balcanica, il percorso che persone per la maggior parte provenienti da Siria, Afghanistan, Iraq, Iran, Pakistan, Bangladesh, compiono nel tentativo di raggiungere l’Europa: una rotta costellata da violenze, torture, respingimenti, restrizioni arbitrarie, che mettono a rischio i diritti delle persone migranti come denunciato più volte da Amnesty International e altre organizzazioni per i diritti umani.
All’interno di questo percorso, Trieste rappresenta una tappa importante: porta di accesso al territorio europeo, per molti non rappresenta la fine del tragitto ma un ulteriore passaggio verso Germania, Francia e stati nordeuropei. Altri invece si fermano con l’obiettivo di chiedere protezione e stabilirsi in Italia.
Dall’estate scorsa si registra un aumento degli arrivi, segnalato in particolare dalle realtà presenti sul territorio che evidenziano un +170 per cento dei transiti rispetto al 2021.
A ciò non sta corrispondendo una risposta da parte delle istituzioni: le persone – prevalentemente uomini, molti minorenni – sono letteralmente abbandonate a loro stesse e all’impegno della rete solidale locale che si è organizzata per rispondere ai bisogni essenziali delle persone migranti, sopperendo alla mancanza di servizi e strutture pubbliche.
Due persone su tre provengono dall’Afghanistan dei talebani. Oltre il 10 per cento degli arrivi riguarda minorenni, molti dei quali di età inferiore ai 16 anni.
Se l’aumento delle persone è una realtà, va anche sottolineato che non si è di fronte a numeri particolarmente allarmanti e determinanti una situazione di difficile gestione: eppure, il sistema pubblico di accoglienza italiano non riesce a fornire una risposta efficace e tempestiva, scontando le criticità presenti da tempo, che si traducono di fatto nell’inaccessibilità dell’accoglienza.
Sono dunque moltissime le persone che rimangono anche molti mesi in attesa di un posto e di un appuntamento per formalizzare la richiesta di protezione.
Se tale situazione interessa l’intero territorio nazionale, in Friuli-Venezia Giulia è stata finora affrontata con un grave silenzio e distacco politico. Eppure le criticità sono presenti da tempo: da luglio 2022 si sono quasi del tutto interrotti i trasferimenti dalle strutture di prima accoglienza di Trieste, Udine e Gorizia verso il resto del territorio nazionale, cosa che ha provocato una crescente pressione sul territorio friulano, non già in ragione dell’aumento delle persone, bensì appunto del blocco del meccanismo dei trasferimenti.
Questa situazione si è tradotta nell’abbandono delle persone, costrette a vivere per strada, in particolare intorno alla zona della stazione di Trieste, senza alcun sostegno se non quello delle associazioni. Uomini, tra cui molti minori, passano settimane, o anche mesi, all’addiaccio, senza un tetto, senza possibilità di lavarsi. Solo le associazioni forniscono coperte, indumenti, cibo e assistenza legale.
L’assenza di accoglienza istituzionale si configura come una violazione del decreto legislativo 142/2015, che dispone che le misure di accoglienza si applichino “dal momento della manifestazione di volontà di chiedere protezione internazionale”. La giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani conferma che la violazione di tale obbligo configura una violazione dei diritti della persona cui spetta, oltre alla cessazione della condotta inadempiente, una tutela risarcitoria.
A tutto questo si aggiunge il fenomeno, denunciato più volte dalle organizzazioni per i diritti umani, dei respingimenti illegittimi, portati avanti in particolare dalla polizia croata con il silenzio complice dell’Unione Europea. Prassi in aperta violazione dei diritti umani di cui anche l’Italia si è macchiata: nel 2020, l’attuale ministro dell’Interno Piantedosi – allora capo di gabinetto al Viminale con Salvini nel primo governo Conte – con una circolare sollecitava ciò che venivano definite “riammissioni informali” verso la Slovenia, considerandole attuabili sulla base di un accordo con la Slovenia del 1996, mai ratificato dal Parlamento.
L’illegittimità di tali prassi non è stata evidenziata solo da organizzazioni internazionali e associazioni, ma anche dal Tribunale di Roma, che con un’ordinanza del gennaio 2021 sottolineava come di fatto tali “riammissioni” impedivano l’esercizio del diritto alla protezione internazionale e andavano sospese. Eppure, lo scorso 28 novembre lo stesso Viminale le ha riattivate, con una direttiva che invita i prefetti di Trieste, Udine e Gorizia “ad adottare iniziative volte a dare ulteriore impulso all’attività di vigilanza sulla fascia di confine, al fine di assicurare la più efficace attuazione degli accordi stipulati con la Slovenia e l’Austria”. Sulla base della direttiva alcuni respingimenti sarebbero già stati effettuati: il condizionale è d’obbligo dal momento che il governo non fornisce dati in merito.
I respingimenti portati avanti anche dall’Italia rendono le persone migranti vulnerabili a riammissioni a catena dall’Italia alla Slovenia, alla Croazia, Bosnia-Erzegovina o Serbia e si compiono in violazione del diritto di accesso all’asilo, del diritto a esercitare una legittima difesa.
È necessario pertanto che il governo italiano impedisca tali respingimenti e si faccia garante della tutela dei diritti umani di persone in particolare condizione di vulnerabilità.
Questa situazione è raccontata dal film “Trieste è bella di notte”, realizzato da di Andrea Segre, Stefano Collizzolli e Matteo Calore, distribuito da ZaLab, e patrocinato da Amnesty International Italia.
Il film sarà presentato in anteprima in selezione ufficiale fuori concorso al 34esimo Trieste Film Festival il 22 gennaio 2023 alle ore 16 e dal 23 gennaio sarà in tour con gli autori nelle sale cinematografiche italiane.
A questo link ulteriori informazioni sul film.