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Mahmoud Abu Zeid, fotogiornalista conosciuto col soprannome Shawkan, è stato arrestato il 14 agosto 2013 mentre stava seguendo per conto dell’agenzia londinese Demotix il violento sgombero di un sit-in convocato dalla Fratellanza musulmana a Rabaa al-Adawiya, un quartiere del Cairo. Durante lo sgombero, le forze di sicurezza egiziane uccisero oltre 600 manifestanti.
Shawkan è stato arrestato semplicemente perché stava facendo il suo lavoro.
In cinque anni le sue udienze sono state aggiornate di mese in mese senza portare ad un nulla di fatto.
Nella prima udienza del processo a suo carico, svoltasi il 26 marzo 2016 e immediatamente aggiornata al 23 aprile, sono state elencate le imputazioni a carico di Mahmoud Abu Zeid, fino ad allora negate all’avvocato difensore, che dunque non ha potuto per oltre due anni e mezzo preparare una linea difensiva.
Le accuse contro di lui erano pretestuose e prive di fondamento: “adesione a un’organizzazione criminale”, “omicidio”, “partecipazione a un raduno a scopo di intimidazione, per creare terrore e mettere a rischio vite umane”, “resistenza a pubblico ufficiale”.
Dopo oltre cinque anni e mezzo di detenzione, il 16 febbraio 2019, Shawkan è stato trasferito in una stazione di polizia, dopo che è stata disposta la sua scarcerazione.
Da quel momento è iniziata la via crucis del passaggio da una stazione di polizia all’altra per gli adempimenti procedurali pre-rilascio.
Soltanto il 4 marzo, ben 16 giorni dopo, Shawkan ha visto la luce ed ha potuto assaporare l’agognata libertà.
“Sono uscito per fare delle foto. Torno a casa cinque anni dopo“. Sono le prime parole di Mahmoud Abu Zeid da uomo libero.
Mahmoud Abu Zeid ha denunciato di essere stato torturato più volte da quando è stato arrestato. Durante il trasferimento alla prigione di Abu Zaabal, è rimasto chiuso in un furgone parcheggiato sotto il sole, con una temperatura esterna di oltre 30°C, senza acqua, cibo e ventilazione. Durante la detenzione gli è stata diagnosticata l’epatite C, ma per tutta la detenzione gli sono state negate le cure mediche.
Di conseguenza, la sua salute si è deteriorata.
Per aver fatto il suo lavoro, Shawkan ha languito cinque anni e mezzo in carcere, cui ora seguiranno altri cinque anni di libertà condizionata, con alcuni probabili obblighi come quello di trascorrere delle notti in una stazione di polizia.
Un rilascio a metà: non potrà nemmeno gestire le proprie finanze. Eppure, appena rilasciato nel quartiere Fisal al Cairo, circondato da amici e familiari, ha detto che riprenderà a fare il suo lavoro.
In questi anni, abbiamo tenuto alta l’attezione sulla storia di Shawkan e abbiamo ripetutamente chiesto il suo rilascio, con una raccolta firme che ha incontrato il sostegno di migliaia di persone.
La trafila giudiziaria che ha dovuto affrontare il fotogiornalista testimonia come il rispetto dei diritti umani in Egitto sia spesso violato e le procedure per un processo equo siano poco trasparenti e lontane dall’essere messe in pratica.