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Migliaia di donne e ragazze sudsudanesi e alcuni uomini che hanno subito stupri nel corso di aggressioni sessuali di natura etnica durante il conflitto stanno affrontando gravi conseguenze psicologiche e stigma e non hanno nessuno cui chiedere aiuto.
È quanto ha denunciato oggi Amnesty International in un rapporto intitolato “Non rimanere in silenzio. Le sopravvissute alla violenza sessuale in Sud Sudan chiedono giustizia e riparazione”.
Il rapporto, frutto di una ricerca congiunta di Amnesty International e 10 difensori dei diritti umani sudsudanesi i cui nomi sono protetti per evitare rappresaglie da parte del governo, rivela che, dall’inizio delle ostilità alla fine del 2013, migliaia di persone in tutto il paese hanno subito gravi atti di violenza sessuale. Gli autori appartengono a entrambe le parti in conflitto – le forze governative del presidente Salva Kiir di etnia dinka e dell’ex presidente Riek Machar di etnia nuer – e dei gruppi armati loro alleati.
“Siamo di fronte a violenze sessuali di massa eseguite con premeditazione nei confronti di donne vittime di stupri di gruppo, penetrate con bastoni e mutilate coi coltelli”, ha dichiarato Muthoni Wanyeki, direttrice di Amnesty International per l’Africa orientale, il Corno d’Africa e la regione dei Grandi Laghi.
“Queste azioni indifendibili hanno cambiato completamente la vita delle vittime, lasciandole alle prese con conseguenze debilitanti, di natura fisica e psicologica. Molte sopravvissute agli stupri sono state abbandonate dai loro mariti e dalle famiglie di questi e stigmatizzate dalla comunità d’appartenenza”, ha aggiunto Wanyeki.
Le ricercatrici di Amnesty International hanno intervistato 168 vittime di violenza sessuale, tra cui 16 uomini, in città e villaggi di quattro stati del Sud Sudan – Equatoria centrale, Jonglei, Alto Nilo e Unione – e in tre campi per rifugiati nel nord dell’Uganda.
In alcuni casi, gli aggressori hanno ucciso le donne dopo averle stuprate. Una donna che aveva cercato di resistere allo stupro ha subito la mutilazione della vagina con un coltello ed è morta quattro giorni dopo.
Non sono stati risparmiati neanche gli uomini. Alcuni sono stati stuprati, altri castrati o torturati con aghi infilati nei testicoli. In un caso particolarmente terrificante, quattro soldati hanno inserito dell’erba nell’ano di un uomo e hanno acceso il fuoco assistendo alla sua morte.
Gatluok, che nel maggio 2015 è sopravvissuto a un raid delle forze governative nello stato di Unione, ha raccontato ad Amnesty International:
“Siccome sono cieco, non sono riuscito a fuggire e mi hanno preso. Mi hanno chiesto di scegliere tra lo stupro e la morte. Ho risposto che non volevo morire e mi hanno stuprato”.
“In diversi casi, questi attacchi sembrano aver avuto l’obiettivo di terrorizzare, degradare e far vergognare le vittime così come anche di impedire a uomini del gruppo rivale di procreare ulteriormente”, ha commentato Wanyeki.
Una sofferenza infinita
Una delle donne incontrate da Amnesty International ora è sieropositiva. Altre hanno problemi di fistole o intestinali. Alcuni uomini sono diventati impotenti.
Molte vittime hanno raccontato di avere continui incubi, perdita di memoria, difficoltà di concentrazione e desideri di vendetta così come di suicidio: si tratta di sintomi classici dello stress da disordine post-traumatico.
Jokudu, 19 anni, è stata stuprata da cinque soldati governativi nei pressi della città di Yei, nel dicembre 2016. Ora non riesce a trattenere l’urina e perde sangue frequentemente.
Nyabake, 24 anni, ha subito uno stupro di gruppo da parte di soldati governativi a un posto di blocco nella capitale Giuba, nel luglio 2016. Da allora non riesce a dormire per più di tre ore di seguito a causa dei continui incubi e del costante timore che i soldati stiano per tornare.
Sukeji, stuprata da tre soldati governativi a Kajo Keji, nell’agosto 2016, di fronte ai suoi due figli, ha raccontato: “Cerco di dimenticare tutto ma a volte mi torna in mente e scoppio a piangere. Mi chiedo se i miei figli hanno conservato la memoria di quello che hanno visto. Quando cresceranno, cosa penseranno della loro madre?”
Nyagai, vittima di uno stupro di gruppo da parte di soldati governativi a Giuba nel luglio 2016, ha raccontato di aver perso da allora la fede religiosa. Non va più in chiesa e ha smesso di pregare: “Satana è entrato dentro di me il giorno in cui sono stata stuprata”, ha raccontato alle ricercatrici di Amnesty International.
Jacob, la cui moglie Aluel è stata stuprata di fronte a lui da combattenti del Movimento di liberazione popolare del Sudan – In opposizione (Splm/Io) a Giuba nel luglio 2016, ha ammesso di aver pensato al suicidio.
“Il governo sudsudanese deve prendere misure decisive per porre fine a quest’epidemia di violenza sessuale, iniziando a parlare chiaramente di tolleranza zero, avviando un’indagine approfondita e indipendente sugli attacchi sessuali e assicurando che i responsabili siano sottoposti a processi equi”, ha affermato Wanyeki.
“Inoltre il governo deve prevenire la violenza sessuale anche allontanando dalle forze armate le persone sospettate di stupro fino quando le accuse nei loro confronti saranno confermate o smentite in maniera indipendente. Le vittime dovranno ricevere giustizia, cure mediche e riparazione”, ha aggiunto Wanyeki.
“A loro volta, le forze di opposizione devono proibire la violenza sessuale, porre in essere misure concrete per controllare la condotta dei loro combattenti e cooperare, secondo quanto richiede il diritto internazionale, alle indagini e ai procedimenti nei confronti di sospetti autori di stupri”, ha proseguito Wanyeki.
Ragioni politiche ed etniche
Molte delle vittime sono state prese di mira a causa della loro etnia, che è sempre più spesso collegata alla fedeltà politica col governo o con l’opposizione.
Nella maggior parte dei casi descritti nel rapporto di Amnesty International, uomini dinka hanno attaccato donne nuer e uomini nuer hanno attaccato donne dinka. Ma ci sono stati persino casi, come nello stato di Unione, in cui uomini nuer favorevoli al governo hanno stuprato donne della loro stessa etnia sospettandole di parteggiare per l’opposizione, o in cui le forze governative hanno preso di mira donne di etnia diversa dalla nuer.
“Quelli [i soldati governativi] mi dicevano che dovevo prendermela con Dio per avermi fatta nascere di etnia nuer”, ha riferito la 36enne Nyachah, stuprata da sette soldati governativi a Giuba. Gli aggressori indossavano le uniformi della guardia presidenziale e parlavano la lingua dinka.
Queste sono le parole di Nyaluit, stuprata da cinque soldati governativi nel dicembre 2013: “Mi hanno stuprata perché sono una donna nuer. Parlavano tra loro di quello che era accaduto a Bor: che le donne e le ragazze dinka erano state stuprate e uccise dagli uomini nuer di Riek Machar”.
James, un dinka, è stato costretto ad assistere allo stupro e all’uccisione di sua moglie, Acham, da parte di nove combattenti nuer. Mentre violentavano la donna, gli chiedevano “Non lo sai che i dinka e i nuer si stanno facendo la guerra e che tanti nuer sono stati uccisi dai dinka a Giuba?”.
FINE DEL COMUNICATO Roma, 24 luglio 2017
Ulteriori informazioni
Tutti i nomi delle vittime sono stati cambiati per proteggere la loro identità e incolumità.
Il rapporto “Non rimanere in silenzio. Le sopravvissute alla violenza sessuale in Sud Sudan chiedono giustizia e riparazione” è disponibile cliccando qui.
Per interviste:
Amnesty International Italia – Ufficio Stampa
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