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“Mohammad Jan Azad ha avuto il coraggio di raccontare la sua storia in modo che diventasse un film, così io e Basir Ahang abbiamo trovato il nostro di coraggio per partecipare, per affrontare questo film che ci faceva ricordare il nostro passato, il nostro viaggio, soprattutto il nostro dolore“.
Sono le parole di Dawood Yousefi che ci parla del film “Sembra mio figlio“, di Costanza Quatriglio, che ha avuto il patrocinio di Amnesty International e che sarà nelle sale italiane dal 20 settembre.
Il film racconta la storia di due fratelli (Basir Ahang e Dawood Yousefi), appartenenti alla minoranza Hazara, scampati da bambini alle persecuzioni in Afghanistan, rifugiati in Italia, e della loro ricerca della famiglia perduta e della madre, un ritorno verso Oriente che segnerà il destino di entrambi.
Come sei arrivato al film?
Sono stato contattato per la prima volta nel 2016, da Basir Ahang, colui che oggi è l’altro protagonista del film.
A luglio abbiamo fatto molti provini e i primi giorni di settembre mi hanno selezionato.
Cosa hai pensato quando hai letto la storia?
C’è una regista che ha deciso di portare avanti un progetto, di raccontare il genocidio del popolo Hazara e cosa ha spinto queste persone a lasciare l’Afghanistan.
Costanza Quatriglio è stata forse la prima persona a raccontare la storia vera di Mohammad Jan Azad, a farlo in un film, sia a livello europeo che mondiale.
Il film racconta il dramma che vive il popolo Hazara in Afghanistan, ma soprattutto in Pakistan. Un popolo pacifico che ha cercato sempre nella storia di usare il cervello, il dialogo piuttosto che l’uso delle armi.
Purtroppo è finito per essere sempre vittima, prima da parte dei talebani, poi da parte dell’Isis.
Da quanto va avanti questa persecuzione?
Questa situazione ha avuto inizio più di cento anni fa con il re dell’Afghanistan che ha cominciato a uccidere più del 60 per cento del popolo Hazara.
È li che ha avuto inizio il genocidio, da allora ogni governo ha calpestato i diritti fondamentali del popolo Hazara, come quello all’abitazione. Anche tanti genocidi sono stati compiuti durante le guerre civili, e dalla nascita dei talebani il massacro in qualche modo è andato avanti.
L’Is, presente in Afghanistan da oltre tre anni, ha avuto un ruolo molto importante: per loro uccidere o far sparire il popolo Hazara è una vera e propria missione.
Non lo considerano un popolo dell’Afghanistan. E uno dei pochi popoli a maggioranza sciita. Gli attacchi vanno avanti a Kabul, centinaia, e i grandi media non hanno raccontato bene quanto accaduto. Gli attacchi non avvengono in un campo di guerra, succedono nelle scuole, per strada, nei mercati, nelle moschee, nelle palestre, durante le manifestazioni pacifiche organizzate dal popolo Hazara.
Anche solo viaggiando, le persone vengono fermate per strada. Ricordo che gli Hazara come me hanno tratti facilmente riconoscibili.
Sei venuto in Italia diversi anni fa, cosa si prova a recitare una storia che in parte hai vissuto?
La storia di “Sembra mio figlio”, in cui viene narrata la vicenda di Mohammad Jan Azad, somiglia molto alla mia storia e a quella di Basir Ahang, e alle storie di tanti ragazzi che hanno deciso di uscire dal paese alla ricerca di una vita, per non uccidere e non essere uccisi a 13, 14 anni in un paese come l’Afghanistan.
Il nostro popolo ha sempre cercato di studiare, la maggior parte dei laureati sono Hazara, nonostante le difficoltà e la povertà. Ma arriva il momento in cui decidi di lasciare tutto: la terra, i genitori, per non morire, per non essere ucciso in un modo brutale.
Quello che succede in Afghanistan oggi non è una guerra faccia a faccia.
Anche tu hai dovuto lasciare tutto..
Mentre studiavo e lavoravo, davo una mano alla Croce Rossa Internazionale. Andavo a soccorrere le vittime subito dopo gli attentati. Poi è arrivato il momento in cui quello che facevo dava fastidio. Troppo fastidio.
Ho ricevuto minacce e ho visto morire compagni di scuola, così ho deciso di lasciare tutto.
Cosa hai provato mentre recitavi il film?
All’inizio non è stato facile ma siamo rimasti forti, insieme, sia io che Basir capivamo che era un sogno che poteva diventare realtà. Ossia che finalmente esisteva un film che racconta il genocidio del popolo Hazara.
Si parla ancora troppo poco del popolo Hazara.
Le organizzazioni internazionali ancora non riconoscono questo come un genocidio.
Non è stato facile. Costanza Quatriglio e gli altri sono stati i primi a girare un film in Iran (dove si sono girate le scene), dopo 50 anni. Ci sono stati problemi anche per le autorizzazioni.
Gli Hazara sono il primo popolo a livello mondiale rifugiato di richiedenti asilo provenienti dall’Afghanistan, oltre 1 milione in Iran, in Pakistan altri milioni.
Quando è stata la prima volta che lo hai visto e cosa hai sentito dentro di te?
La prima volta ho visto il film a Festival di Locarno. È stato bello perché ho visto concretizzarsi i 4 mesi di lavoro. È stato emozionante perché ho avuto la certezza che il progetto era andato a buon fine.