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L’esecuzione di 37 prigionieri condannati per “terrorismo”, uno dei quali minorenne al momento del reato, segna un’allarmante escalation nell’uso della pena di morte in Arabia Saudita.
“Questa esecuzione di massa mostra ancora una volta e in modo agghiacciante il profondo disprezzo delle autorità saudite per la vita umana e l’uso della pena di morte come strumento di repressione politica contro la minoranza sciita del paese“, ha dichiarato Lynn Maalouf, direttrice delle ricerche sul Medio Oriente di Amnesty International.
La maggior parte delle persone messe a morte, al termine di processi irregolari basatisi su “confessioni” estorte con la tortura, era costituita da uomini sciiti.
Undici di loro erano stati condannati per spionaggio in favore dell’Iran, almeno altri 14 per reati violenti nell’ambito di manifestazioni contro il governo che si erano svolte tra il 2011 e il 2012 nella Provincia orientale a maggioranza sciita.
I 14 sciiti erano stati sottoposti a un lungo periodo di detenzione preventiva nel corso del quale erano stati torturati affinché rilasciassero una “confessione”.
Tra i prigionieri messi a morte c’era anche Abdulkareem al-Hawaj, un giovane sciita arrestato a 16 anni sempre per reati commessi durante le manifestazioni antigovernative. La sua esecuzione costituisce una violazione del divieto assoluto di usare la pena di morte contro rei minorenni.
Secondo quanto appreso da Amnesty International, le famiglie dei prigionieri messi a morte non hanno ricevuto alcun preavviso.
Finora nel 2019 in Arabia Saudita sono state eseguite almeno 104 condanne a morte, 44 delle quali nei confronti di cittadini stranieri per lo più per reati di droga. In tutto il 2018 le esecuzioni erano state 149.
Tra coloro che restano in attesa di esecuzione vi sono Ali al-Nimr, Dawood al-Marhoon e Abdullah al-Zaher, tre sciiti minorenni al momento del reato per cui sono stati condannati a morte.