Cisgiordania occupata, Amnesty denuncia Israele di sfollamenti forzati

5 Giugno 2025

Middle East Images/AFP via Getty

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Nell’ambito della sua brutale operazione militare in corso nel Territorio palestinese occupato della Cisgiordania, l’esercito israeliano ha provocato lo sfollamento di decine di migliaia di persone palestinesi, distruggendo abitazioni e infrastrutture civili nei campi rifugiati di Jenin e Tulkarem, rendendoli così inabitabili.

Il 5 giugno la popolazione palestinese commemora la Giornata della Naksa, in ricordo dello sfollamento forzato di circa 300.000 palestinesi avvenuto durante il conflitto del giugno 1967, quando Israele occupò la Cisgiordania – inclusa Gerusalemme Est – e la Striscia di Gaza. A 58 anni di distanza, l’operazione militare israeliana condotta negli ultimi quattro mesi ha provocato il più massiccio sfollamento di persone della Cisgiordania da allora.

L’esercito israeliano ha impiegato carri armati, effettuato attacchi aerei, demolito edifici, distrutto strade e infrastrutture e imposto pesanti restrizioni alla libertà di movimento attraverso posti di blocco e frontiere stradali. Secondo il ministero della Salute palestinese, tra il 21 gennaio e il 4 giugno le forze israeliane hanno ucciso almeno 80 palestinesi – tra cui 14 minori – nel nord della Cisgiordania, inclusa Nablus.

“La devastante operazione militare di Israele nella Cisgiordania occupata, che sta avvenendo sullo sfondo agghiacciante del genocidio in corso nella Striscia di Gaza, ha conseguenze catastrofiche per decine di migliaia di persone palestinesi sfollate, che stanno affrontando una crisi in rapido peggioramento e senza alcuna prospettiva di ritorno. Il trasferimento illegale di persone protette rappresenta una grave violazione della Quarta Convenzione di Ginevra e un crimine di guerra”, ha dichiarato Erika Guevara Rosas, alta direttrice per le ricerche e le campagne di Amnesty International.

“Israele deve porre fine immediatamente a tutte le pratiche illegali che conducono allo sfollamento forzato della popolazione palestinese, tra cui gli attacchi contro aree residenziali, la distruzione di proprietà e infrastrutture e le diffuse restrizioni all’accesso e alla libertà di movimento imposte alla popolazione. Alcune di queste misure costituiscono punizioni collettive, anch’esse vietate dalla Quarta Convenzione di Ginevra. Queste azioni fanno parte di un più ampio schema di politiche e pratiche illegali con cui Israele mira a espropriare, dominare e opprimere la popolazione palestinese della Cisgiordania, nel contesto di un sistema di apartheid spietato”, ha proseguito Erika Guevara Rosas.

Alcuni rappresentanti dei comitati popolari dei campi rifugiati di Jenin, Nur Shams e Tulkarem hanno riferito ad Amnesty International che si stima siano state sfollate circa 40.000 persone, metà delle quali provenienti dal campo di Jenin.

Le riprese video verificate da Amnesty International hanno documentato vaste demolizioni di abitazioni e gravi danni a proprietà civili e infrastrutture nei campi. È fortemente aumentato anche il numero degli arresti: secondo la Commissione palestinese per le persone detenute, dall’inizio dell’operazione sono stati arrestati circa 1.000 palestinesi: 700 a Jenin e 300 a Tulkarem.

L’esercito israeliano ha dichiarato i campi rifugiati di Jenin, Nur Shams e Tulkarem “zone militari chiuse”, stanziando sul posto proprie forze che impediscono attivamente agli abitanti di accedere alle loro case o a ciò che ne rimane. Testimoni hanno riferito che le forze israeliane aprono il fuoco contro chiunque tenti di tornare anche solo per verificare lo stato delle proprie abitazioni o recuperare effetti personali.

Un caso emblematico si è verificato il 21 maggio, quando una delegazione diplomatica composta da rappresentanti di oltre 20 stati è stata presa di mira dai soldati israeliani durante una visita al campo rifugiati di Jenin.

L’operazione “più distruttiva” degli ultimi decenni

L’operazione militare israeliana è iniziata il 21 gennaio nel campo rifugiati di Jenin, per poi estendersi, il 27 gennaio, a quelli di Tulkarem e successivamente alla cittadina di Tammoun e al campo di al-Far’ah. Sebbene le forze israeliane si siano ritirate da al-Far’ah il 12 febbraio, rimangono ancora stanziate nei campi di Jenin e Tulkarem.

Un grave segnale d’allarme si è verificato il 23 febbraio, quando per la prima volta in oltre vent’anni sono stati dispiegati carri armati israeliani a Jenin. Nello stesso giorno, il ministro della Difesa israeliano ha ordinato all’esercito di “prepararsi a una lunga permanenza nei campi sgomberati” e di impedire il ritorno delle persone residenti. Secondo quanto riportato dai media israeliani, che citano fonti militari, l’operazione è destinata a durare mesi, con centinaia di soldati che resteranno nei campi per attività di “sorveglianza”.

Già il 22 marzo l’Unrwa, l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi, aveva definito l’intervento israeliano come “senza dubbio, l’operazione più lunga e distruttiva nel Territorio palestinese occupato della Cisgiordania dagli anni 2000”, ossia dai tempi della seconda intifada”.

Demolizioni di abitazioni e distruzione delle infrastrutture

Durante l’operazione militare, l’esercito israeliano ha distrutto sistematicamente centinaia di abitazioni all’interno dei campi e nei quartieri adiacenti, sia attraverso interventi armati sia con ordini di demolizione. Secondo il Centro palestinese per i diritti umani, nel solo campo rifugiati di Jenin, l’esercito ha raso al suolo centinaia di case e ne ha danneggiate molte altre, rendendole inabitabili. A marzo Israele ha annunciato l’intenzione di demolire 66 abitazioni all’interno del campo. Più recentemente, il 1° maggio, l’esercito ha emesso nuovi ordini di demolizione per 106 abitazioni nei campi rifugiati di Tulkarem, oltre la metà delle quali in quello di Nur Shams.

Il Crisis Evidence Lab di Amnesty International ha verificato 25 video condivisi sui social media da abitanti o soldati, che mostrano la distruzione di proprietà civili da parte delle forze israeliane nei campi rifugiati di Jenin, Tulkarem e Nur Shams tra il 31 gennaio e il 1° giugno. Le immagini documentano numerosi edifici demoliti con esplosivi posizionati manualmente, nonché strade, palazzi e veicoli distrutti coi bulldozer, e le conseguenze degli attacchi, con abitazioni civili ridotte in macerie. In molti casi, le forze israeliane sembrano aver effettuato operazioni di sgombero, rimuovendo gli edifici per allargare o creare nuove strade.

Amnesty International ha inoltre analizzato 32 ulteriori video e fotografie forniti direttamente da persone palestinesi residenti, che documentano danni ad abitazioni e beni personali. Le immagini mostrano interni devastati, con finestre in frantumi, mobili distrutti, porte divelte, armadi svuotati, oggetti personali sparsi ovunque e resti di cibo abbandonati nelle stanze.

“Il livello di distruzione nei campi è così esteso che ci vorranno mesi prima che possano tornare abitabili” – ha dichiarato Nihad Shaweesh del comitato popolare di Nur Shams – “Anche se ci venisse consentito di rientrare, chi ha ancora un’abitazione in piedi avrà bisogno di mesi per renderla nuovamente vivibile, a causa dei gravi danni strutturali subiti”.

Una madre di sei figli del campo rifugiati di Jenin (il cui nome non è stato divulgato per ragioni di sicurezza) ha raccontato di aver ricevuto sul telefono alcune fotografie che mostrano la completa distruzione della sua abitazione: “Ho aperto le foto e ho subito riconosciuto le lenzuola dei letti dei miei figli. Non riuscivo a credere che quella fosse la nostra casa. Hanno demolito la casa e distrutto il nostro Suv. La macchina era solo un ammasso di metallo. Ero sotto shock. Non riuscivo a parlare, riuscivo solo a piangere”.

Un abitante di Nur Shams, Ibraheem Khalifa, ha raccontato come la sua famiglia sia stata sfollata con la forza il 9 febbraio e la loro casa sia stata poi demolita:

“Siamo tornati… per assistere alle demolizioni delle case dei nostri vicini e stare con loro [in segno di solidarietà]. Tuttavia, mentre eravamo lì seduti, ci siamo accorti che [il bulldozer militare] stava iniziando a demolire anche le nostre case. Quegli appartamenti li avevamo costruiti con le nostre mani. Lì siamo cresciuti, abbiamo condiviso momenti di gioia e dolore. In quella casa ci siamo sposati, abbiamo celebrato ricorrenze, affrontato difficoltà… tutto. Quella casa ha visto tutto. Ora le nostre abitazioni e tutti i nostri averi non esistono più”.

Nel corso dell’operazione le forze israeliane hanno anche sistematicamente distrutto infrastrutture essenziali, comprese strade, reti idriche, elettriche e di comunicazione. La Mezzaluna rossa palestinese ha confermato la vasta distruzione delle strade interne ai campi rifugiati.

Militarizzazione dei campi e restrizioni alla libertà di movimento

Anche l’accesso ai campi rifugiati e la libertà di movimento sono stati gravemente compromessi: le forze israeliane hanno bloccato gli ingressi e le strade principali con cancelli metallici o posti di blocco e utilizzato bulldozer per creare barriere di terra e recinzioni con filo spinato.

Un abitante di Nur Shams, Fatima Ali, ha raccontato che il 9 febbraio le forze israeliane si sono impossessate della sua casa, trasformandola in un avamposto militare. Ha descritto come l’irruzione abbia costretto la famiglia di suo fratello a lasciare l’edificio, mentre lei – malata e impossibilitata a camminare a causa delle strade distrutte – è stata confinata in una stanza mentre la casa veniva utilizzata temporaneamente come postazione militare:

“Dalla mia casa si vede in tutte le direzioni, ho un balcone e una porta a ovest e un’altra a nord, così loro [i soldati] sono arrivati e l’hanno occupata. All’inizio mi hanno rinchiusa in una stanza. Quando arrestavano qualcuno, lo portavano nella mia abitazione. Mi hanno detto di andarmene ore dopo e ho avuto bisogno dei soccorsi per lasciare il campo perché tutte le strade erano state scavate e distrutte”.

L’operazione militare ha inciso anche su altri diritti sociali ed economici, tra cui il diritto all’istruzione: molti bambini e bambine hanno perso settimane di scuola. A Tulkarem, oltre 691 attività commerciali sono state distrutte, danneggiate o costrette alla chiusura.

“Tulkarem è diventata una città fantasma. I negozi in città chiudono alle 18 perché non ci sono visitatori o clienti da fuori. Le persone che coltivano non riescono a raggiungere i loro terreni e chi lavora non può uscire per via della chiusura dei posti di blocco. La situazione economica della città è catastrofica”, ha dichiarato Qais Awad della Camera di commercio di Tulkarem.

L’urgente necessità di un’azione internazionale

“Il persistente fallimento della comunità internazionale nel chiamare Israele ad assumersi la responsabilità delle violazioni commesse contro la popolazione palestinese, in particolare per il crudele sistema di apartheid e per l’occupazione illegale, lo ha rafforzato e ha alimentato ulteriori gravi violazioni dei diritti delle persone palestinesi”, ha dichiarato Erika Guevara Rosas.

“Nel suo Parere consultivo del luglio 2024, la Corte internazionale di giustizia è stata chiarissima: la presenza di Israele nel Territorio palestinese occupato è illegale e deve finire al più presto. Gli stati devono sostituire le dichiarazioni con azioni concrete. Devono interrompere immediatamente la fornitura di armi e di assistenza militare a Israele, nonché ogni attività economica che possa contribuire alle gravi violazioni del diritto internazionale. Devono inoltre sostenere la Corte penale internazionale e cooperare pienamente con essa nelle indagini e nei processi relativi ai crimini di diritto internazionale commessi in Palestina. Non adottare queste misure equivale ad aiutare Israele a consolidare il proprio sistema di apartheid nei confronti della popolazione palestinese e a perpetuare l’occupazione illegale”, ha concluso Guevara Rosas.