Foto di Nastia Maksimova
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Perché è così difficile parlare di consenso in Italia?
Perché è ancora molto forte il retaggio di un potere sui corpi delle donne e sulla sessualità. Gli uomini hanno avuto nei millenni, sino a molto di recente, un potere unilaterale di sessualità, solo con il femminismo e con la pillola anticoncezionale le donne hanno affermato a pieno la loro autodeterminazione nei rapporti sessuali e in Italia, sino al 1981, abbiamo avuto il delitto d’onore e il matrimonio riparatore, ossia una normalizzazione e giustificazione della violenza sessuale e del femminicidio. Sino al 1996, il reato di violenza sessuale in Italia è stato contro la morale pubblica e non contro le donne e i loro corpi. Ne consegue una fotografia sociologica a duplice velocità, come anche confermato da indagini Istat: le donne sono soggetti di diritti specifici e per questo hanno lottato e ottenuto conferme di una realtà per loro già precedente, mentre gli uomini sono abituati a retaggi di privilegi soprattutto in ambito familiare e in questi privilegi c’è ancora un’idea di sessualità come diritto ancora dispari.
Qual è la posizione della giurisprudenza in Italia?
In Italia abbiamo la legge 66/96 sulla violenza sessuale che fu un compromesso tra i vari partiti del parlamento italiano, in particolare la parte cattolica e la parte progressista. La nostra legge è stata frutto di 20 anni di lotte delle femministe che iniziarono a raccogliere le firme per una nuova legge di iniziativa popolare sin dagli anni Settanta. Questa legge, approvata grazie all’alleanza tra le donne di tutto l’arco parlamentare che portarono anche tutti gli uomini a dover accettare questa approvazione, fu come detto una mediazione e quindi molto poco progressista. La potremmo chiamare una norma penale in materia di violenza di tipo 3: la più progressista è quella svedese, ossia “sì è sì”, la seconda è “no è no” e il terzo tipo, il meno evoluto, è quello in cui il reato viene riconosciuto solo quando la donna dimostra che c’è stata minaccia e costrizione. La giurisprudenza, a seguito della ratifica della Convenzione di Istanbul, potendo fare riferimento alla definizione di stupro compresa nel suo testo, ha avviato un’evoluzione interpretativa della norma di tipo convenzionale, potendosi quindi liberare delle parti più antiche e retrograde che spostano sulla vittima la responsabilità della dimostrazione del reato subìto. Una direttiva europea che non contiene tale definizione annulla la forza dell’interpretazione convenzionale e ci esporrebbe di nuovo a una grave e inaccettabile violenza istituzionale.
Come lavora Differenza Donna a livello nazionale?
Differenza Donna gestisce il 1522 e centri antiviolenza, case rifugio e case di semiautonomia e agisce a livello nazionale, europeo e internazionale; infatti, siamo associazione ma anche Ong. La nostra strategia è sempre stata partire dall’accoglienza e dal supporto alle donne in uscita dalla violenza maschile, per sostenerle nei troppi ostacoli ancora presenti nella società e accompagnarle, aumentando la contaminazione culturale con l’aumento del network e della sua forza. Importante è la formazione, che deve avere l’obiettivo di incrementare la condivisione dei percorsi a sostegno delle donne, ma anche migliorare l’efficacia degli interventi di protezione che con la Convenzione di Istanbul sono diventati obbligo per gli stati che l’hanno ratificata. Abbiamo sempre gestito i centri antiviolenza e agito su due livelli: accoglienza e sostegno alle donne da un lato e advocacy e cambiamento del contesto culturale, sociale, normativo, procedurale dall’altro.
Cosa può fare la società civile per supportare questa lotta di civiltà?
La società civile può davvero avere un grande potere sulla capacità del nostro paese di evolvere. Solo dal basso si compiono vere rivoluzioni culturali in cui dobbiamo sentirci coinvolte tutte e tutti. Solo un importante biasimo sociale può farci avanzare e recuperare anche il ritardo specifico del nostro paese e direi che, dopo questo faticoso 2023, la misura è davvero colma e nessuno può più tirarsi indietro.
Articolo a cura di Tina Marinari, Ufficio campagne, per il numero 2 del trimestrale I Amnesty.