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Gianni Rufini, direttore generale di Amnesty International Italia, ha consegnato all’ambasciatore della Repubblica islamica dell’Iran in Italia le ultime firme raccolte nei quattro giorni dopo la condanna a morte del medico iraniano Ahmadreza Djalali.
Altre 35.000 firme erano state inviate all’ambasciata nei mesi precedenti.
La consegna è avvenuta il 27 ottobre nel corso di un incontro cui hanno preso parte anche la senatrice Elena Ferrara e il senatore Luigi Manconi, che hanno presentato all’ambasciatore il testo dell’interpellanza, indirizzata al ministro degli Affari esteri Alfano, sottoscritta da oltre 130 senatrici e senatori appartenenti a tutti gli schieramenti politici, che chiede che venga scongiurata l’esecuzione di Djalali.
Arrestato in occasione dell’ultima sua visita in Iran, nell’aprile 2016, per sette mesi – tre dei quali passati in isolamento – Djalali non aveva potuto incontrare un avvocato.
Djajali è stato condannato a morte per “aver sparso corruzione sulla terra“, un reato di derivazione coranica che fa riferimento ai comportamenti disonesti e che, ai tempi d’oggi, comprende le attività di spionaggio.
Secondo la sentenza, che uno dei suoi avvocati ha potuto leggere, Djalali lavorava per il governo israeliano che lo aveva pagato in cambio di informazioni sui programmi militari e nucleari iraniani e poi lo aveva aiutato a ottenere il permesso di soggiorno in Svezia.
In una conferenza stampa tenuta il giorno dopo la condanna a morte, il procuratore di Teheran si è spinto ad associare Djalali alle uccisioni, risalenti al 2010, dei due docenti ed esperti di nucleare Massoud Ali-Mohammadi e Majid Shahriari.
Due giorni prima della sentenza, in un audio pubblicato su YouTube, Ahmadreza Djalali aveva denunciato che, durante l’isolamento, era stato costretto per due volte a rilasciare “confessioni” di fronte a una telecamera, leggendo una dichiarazione scritta dai funzionari che lo interrogavano. Aggiungeva di essere stato sottoposto a torture psicologiche e minacce di metterlo a morte e di arrestare i suoi figli, per obbligarlo a “confessare” di fare spionaggio per conto di un “governo nemico”, un’accusa del tutto fabbricata dai servizi segreti iraniani.
Per protesta, Djalali aveva iniziato uno sciopero della fame il 24 febbraio. Tuttavia, a causa dell’ulteriore peggioramento della sua salute che ne aveva causato il ricovero, ha deciso di interrompere lo sciopero della fame il 6 aprile.
La moglie, Vida Mehrannia, residente in Svezia con i loro due figli, ha denunciato ad Amnesty International che la salute fisica e mentale del marito è rapidamente peggiorata dall’arresto. “Chiediamo il suo rilascio, perché non ha commesso alcun reato”, è stato il suo appello.