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Iwao Hakamada, 84 anni, si è visto riconoscere dopo mezzo secolo il diritto a un nuovo processo che – sperano i suoi avvocati – possa vederlo finalmente assolto. E, aggiungiamo, con l’auspicio che quel giorno sia ancora in vita.
Nel 1968 l’uomo che ha scontato il più elevato numero di anni nei bracci della morte del Giappone, quasi sempre in isolamento, era stato giudicato colpevole dell’omicidio del suo datore di lavoro, della moglie e dei loro due figli.
Per i decenni successivi, Iwao Hakamada ha lottato per dimostrare che la sua confessione di colpevolezza era stata estorta dopo interminabili interrogatori gestiti con costanti pestaggi e intimidazioni.
La condanna a morte era stata confermata dalla Corte Suprema nel 1980, ma nel 2014, con una decisione tra le più rare della storia della pena di morte in Giappone, un tribunale di Shizuoka aveva accolto la richiesta di un nuovo processo. La pubblica accusa aveva fatto ricorso e l’Alta Corte le aveva dato ragione. Ma all’ennesimo ricorso, la Corte Suprema ha ribaltato tutto.
Dal 2014 Iwao Hakamada attendeva questo giorno. La giustizia, negatagli per 52 anni, sembra ora più vicina. Sempre che non arrivi tardi.
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