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In occasione dell’odierna Giornata mondiale dei rifugiati, Amnesty International ha urgentemente chiesto al governo del Pakistan di porre fine alle vessazioni e agli arresti arbitrari nei confronti dei richiedenti asilo provenienti dall’Afghanistan, molti dei quali fuggono dalla persecuzione dei talebani.
Negli ultimi anni, molte persone che temevano di subire le conseguenze del ritorno al potere dei talebani in Afghanistan sono fuggite in Pakistan: qui hanno subito ondate di arresti arbitrari, detenzioni e minacce di rimpatrio. A causa dei considerevoli ritardi nelle procedure, molte di queste persone non sono in possesso degli “attestati di registrazione”, il documento d’identità che consente loro di rimanere in Pakistan in condizioni di legalità. Molte persone sono arrivate in Pakistan con un regolare visto d’ingresso, che poi è scaduto.
“È estremamente preoccupante che la situazione dei rifugiati afgani non stia ricevendo la dovuta attenzione internazionale. Queste persone non hanno via d’uscita: non possono tornare a casa né rimanere in modo permanente in Pakistan. Il loro ambiguo status giuridico e le complicate procedure di ricollocamento negli stati terzi le rende ancora più vulnerabili”, Dinushika Dissanatake, vicedirettrice di Amnesty International per l’Asia meridionale.
Amnesty International ha condotto nove interviste da remoto con richiedenti asilo afgani, sei dei quali arrestati dalle autorità pachistane negli ultimi tre mesi. Un numero maggiore di interviste con afgani rifugiati in Pakistan è stato svolto nel 2022. In molti casi sono stati denunciati comportamenti vessatori da parte delle forze di polizia e di altri funzionari pachistani.
Hussain*, un ex impiegato del ministero dell’Interno dell’Afghanistan, è fuggito in Pakistan con la sua famiglia nel 2022 dopo aver rischiato di finire nelle mani dei talebani.
Nel febbraio di quest’anno la polizia ha fatto irruzione nella sua abitazione e in quelle di altre famiglie afgane in un quartiere di Islamabad. È stato ammanettato, portato in una stazione di polizia e interrogato sul suo status di cittadino straniero, sul suo impiego e sulle sue relazioni sociali. Lo stesso è accaduto ad altri 20 afgani:
“Ci hanno sequestrato passaporti e portafogli e perquisiti numerose volte. Hanno posto in detenzione anche chi aveva un visto valido e si trovava legalmente in Afghanistan”.
Il giorno dopo, l’uomo è stato scarcerato dietro il pagamento di una “multa” di 30.000 rupie (circa 95 euro), senza una ricevuta del versamento o un documento che spiegasse il motivo del suo arresto. Altri cinque afgani intervistati da Amnesty International hanno fornito lo stesso resoconto: tutti costretti a pagare “multe” di migliaia di rupie e privi di qualunque documentazione. “La nostra vita in Pakistan non è per niente al sicuro”, ha commentato Hussain*.
Queste rappresentano una piccola parte delle tante storie di afgani fuggiti in Pakistan per rifarsi una vita lì o per trovare un ricollocamento in uno stato terzo. Le minacce e le vessazioni da loro subite sono acuite dai ritardi delle procedure di ricollocamento e dalla scadenza dei visti: ciò rende queste persone ancora più vulnerabili dal punto di vista giuridico.
Gli stati che hanno messo a disposizione procedure speciali di ricollocamento per afgane e afgani in fuga dalla persecuzione dei talebani – Stati Uniti d’America, Canada, Regno Unito e Germania – attualmente non emettono visti dall’Afghanistan, dove non hanno più una rappresentanza diplomatica. Allo stesso tempo, le procedure per emettere visti in Pakistan sono complicate e lente, con tempi d’attesa di molti mesi.
Ad esempio, nell’ottobre 2022 la Germania ha avviato un programma di ammissioni umanitarie che prevede l’ingresso di 1000 afgani al mese. Secondo fonti di stampa, da allora fino a giugno 2023, nessun afgano era arrivato in territorio tedesco: gli afgani cui era stato detto di andare in Pakistan per ottenere il visto sono ancora lì.
Analogamente lunga è la procedura per ottenere la “prova di registrazione” da parte dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur). Tutti questi ritardi rendono più facili le vessazioni della polizia e le estorsioni di denaro, una pratica denunciata in molte province del Pakistan.
Gli afgani intervistati da Amnesty International hanno detto che non si sentono in grado di denunciare la situazione a causa del loro precario status giuridico. La situazione è particolarmente grave per le donne e le bambine, discriminate sia in Afghanistan che in Pakistan.
Gli afgani che non sono in grado di provare il loro status giuridico non riescono a trovare un impiego ufficiale e finiscono per essere sfruttati in lavori informali e a basso salario. Senza una “prova di registrazione” o un visto, è anche difficile comprare una scheda telefonica o aprire un conto bancario per ricevere denaro dai familiari.
A molti degli ultimi arrivati viene imposto di viaggiare verso il confine con l’Afghanistan e di lasciare ufficialmente il Pakistan per rinnovare il visto: un’operazione costosa e pericolosa. Le guardie di frontiera chiedono mazzette per far attraversare il confine anche a chi ha un visto valido.
Sulla base della Legge sugli stranieri del 1946, le autorità pachistane eseguono arresti di afgani anche quando hanno documenti validi. Una volta nelle mani della polizia, non c’è alcuna protezione legale. Anche i contatti con le organizzazioni pachistane per i diritti umani sono senza esito.
Inoltre, i richiedenti asilo afgani trovano enormi ostacoli nell’accesso alle cure mediche e all’istruzione per i loro figli. Alcune scuole rifiutano l’iscrizione a causa dell’ambiguità dello status giuridico. A causa della discriminazione di genere, le bambine afgane incontrano difficoltà ancora maggiori.
L’Acnur è responsabile per la registrazione dei richiedenti asilo afgani, per il rilascio della “prova di registrazione” e per determinare se siano o meno rifugiati.
Per le procedure di registrazione, l’Acnur ha posto sotto contratto la Società per i diritti umani e per l’aiuto ai prigionieri (Society for human rights and prisoners’ aid, Sharp). Gli afgani intervistati da Amnesty International hanno denunciato lunghi tempi di attesa, presso gli uffici della Sharp, per prendere un appuntamento per l’intervista così come risposte dilatorie al telefono: in questo modo, per chi è arrivato di recente è impossibile ottenere la documentazione necessaria in tempi brevi.
Ahmad* si è rivolto all’Acnur nel novembre 2021 per ottenere la “prova di registrazione”. Nell’agosto 2022 gli è stato chiesto di fornire i suoi dati biometrici. Dieci mesi dopo è ancora in attesa di un documento.
Per Hussain*, Ahmad* e altri rifugiati in Pakistan che lavoravano per l’ex governo afgano o nella società civile, ritornare in Afghanistan è impossibile.
“Gli afgani in cerca d’asilo prima sono stati puniti dai talebani e ora vengono puniti dalle ardue procedure di registrazione, asilo e concessione dei visti. In profonda contraddizione con le promesse iniziali, la comunità internazionale non sta fornendo adeguata protezione a coloro che fuggono dalla persecuzione in Afghanistan”, ha commentato Dissanayake.
“Chiediamo all’Acnur di sveltire le procedure di registrazione e di rinnovo delle richieste d’asilo, al governo del Pakistan di porre fine alle vessazioni e agli arresti arbitrari e, agli stati di terzi che hanno offerto disponibilità per il ricollocamento, di accelerare l’emissione dei visti”, ha concluso Dissanayake.
I nomi seguiti da un asterisco sono stati cambiati per proteggere la loro identità.
Il 14 giugno Amnesty International ha contattato il governo del Pakistan, l’Acnur e la Sharp condividendo le proprie conclusioni ma finora non ha ricevuto alcuna risposta.
A causa dei rischi di persecuzione, l’Acnur ha emesso un “avviso a non rientrare” agli afgani che si trovano fuori dal loro stato dopo la presa del potere dei talebani. Secondo l’Acnur, in Pakistan si trovano attualmente oltre tre milioni e 700.000 afgani, un milione e 400.000 dei quali formalmente registrati.
Il 15 dicembre 2022 Amnesty International aveva già presentato al governo pachistano le sue preoccupazioni per la situazione dei richiedenti asilo e dei rifugiati afgani.