Incubi, esaurimento e burnout: l’impatto emotivo di una vita in prima linea

9 Ottobre 2020

AFP via Getty Images

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Incubi, esaurimento e burnout: gli operatori sanitari descrivono l’impatto emotivo di una vita in prima linea

Di Tamaryn Nelson, Ricercatrice di Amnesty International sul Diritto alla Salute

“Ho chiamato la mia psicologa quando eravamo nel mezzo della tempesta, ma ho sentito che non riuscivo a parlare. Lasciare andare i miei sentimenti sarebbe come aprire una diga di emozioni e non so se sarei capace poi di trattenerle di nuovo“.

Questo è quanto Annalisa*, operatrice sanitaria in una residenza socioassistenziale per anziani in Italia, ha detto ad Amnesty International rispetto all’impatto che la pandemia ha avuto sulla sua salute mentale.

Come molti operatori sanitari in tutto il mondo, Annalisa ha messo in secondo piano il proprio benessere durante tutto il periodo della pandemia. Anche durante l’apice della crisi sentiva la gravità dell’impatto psicologico, nonostante fosse preoccupata dalle sfide quotidiane, come la carenza di dispositivi di protezione. Annalisa ha rivelato di aver sviluppato una balbuzie e di aver avuto gli incubi, ma allo stesso tempo la carenza di personale le ha impedito di prendersi una pausa.

Non ce la facevo più. Ma ho dovuto aspettare che i colleghi che avevano contratto il virus potessero rientrare dalla malattia, in modo che ci fosse un minimo di copertura in struttura. Non me la sentivo di abbandonare una nave che affonda“.

Il diritto al più alto standard di salute mentale raggiungibile è sancito dal diritto internazionale, ma a livello globale relativamente poche persone hanno accesso a servizi di salute mentale di qualità.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità afferma che nei paesi a basso e medio reddito, oltre il 75% delle persone con disturbi mentali, neurologici e da uso di sostanze non riceve alcun trattamento. Il Covid-19 ha esacerbato il problema: un recente sondaggio dell’Oms ha rilevato che la pandemia ha interrotto o sospeso servizi essenziali di salute mentale nel 93% dei paesi del mondo. Nel frattempo, la richiesta di questi servizi è in aumento.

Sebbene tutti abbiano percepito l’impatto psicologico della pandemia, gli operatori sanitari sono stati esposti ad eventi traumatici su base quotidiana e necessitano di un supporto supplementare.

Amnesty ha realizzato decine di interviste con operatori sanitari di tutto il mondo, molti dei quali hanno segnalato i rischi per la salute fisica e mentale legati alla carenza di dispositivi di protezione individuale e agli orari di lavoro massacranti. Gli operatori sanitari che si trovano ad andare a lavorare senza protezioni adeguate si sentono sottovalutati, demoralizzati e indignati. Ciò nonostante, complici le basse retribuzioni e la precarietà dei contratti – questione endemica per questo settore – molti non hanno altra scelta se non continuare a lavorare.

Sarah*, che lavora in una casa di cura nel Regno Unito, ha detto di essersi iscritta al sindacato dopo aver scoperto che i lavoratori interinali chiamati a coprire i turni venivano pagati più degli altri dipendenti. Era arrabbiata per quelli che lei definisce “salari di povertà” e per il fatto che i lavoratori delle case di cura si siano trovati a lavorare in condizioni di malessere perché non ricevevano l’indennità per malattia prevista dalla legge.

Sarah ha descritto l’impatto psicologico dell’isolamento sui residenti della casa di cura: “Mi ha spezzato il cuore. La famiglia è un diritto degli anziani residenti, che vogliono vivere felici alla fine della loro vita. Invece sono stati costretti a stare sempre nelle loro stanze“.

Quindi, quando il suo responsabile l’ha chiamata nel suo giorno libero e le ha chiesto di andare al lavoro, Sarah ha accettato.

Mi sentivo esausta, ma pensavo agli anziani residenti. Chi li avrebbe assistiti? Probabilmente dei lavoratori interinali. Quando sei stabilmente impiegato in una struttura, invece, conosci bene le esigenze dei tuoi pazienti“.

Laly *, assistente domiciliare in Francia, sostiene che il governo francese sottovaluti lo stress che la pandemia ha esercitato sulle persone del suo settore. Gli operatori sanitari che visitano i pazienti a domicilio sono stati esclusi dal programma di bonus previsto in Francia fino ad agosto. Sebbene il bonus sia poi stato esteso, Laly è indignata per le basse retribuzioni e per le insoddisfacenti condizioni lavorative. Sottolinea inoltre che effettivamente molti nel suo settore sono pagati al di sotto del salario minimo e che la stragrande maggioranza sono donne. Laly ha aggiunto che a volte lavora dalle 6:00 alle 21:00 con una sola ora di pausa, assistendo le persone vulnerabili a fare la doccia, usare il bagno, mangiare e vestirsi. Ciò nonostante, Laly ha evidenziato che la sua azienda inizialmente non forniva mascherine ai lavoratori e che alla fine era riuscita a recuperare delle mascherine da infermiere che vivevano vicino a casa sua.

Laly teme che se ci sarà un secondo picco, molti assistenti domiciliari si dimetteranno: “Molte persone sono esauste e soffrono di depressione … Se davvero scoppia una seconda ondata, sarà davvero dura per le autorità, perché ci sono molti operatori sanitari che si metteranno in malattia. Nonostante la loro dedizione, non torneranno a lavorare in quelle condizioni“.

Molti operatori sanitari intervistati da Amnesty si sono sentiti demoralizzati dalle disuguaglianze legate alle decisioni sui dispositivi di protezione individuale. Ronald*, un farmacista ospedaliero in Indonesia, ha detto di essere rimasto senza protezione e supporto adeguati quando i farmacisti sono stati considerati come “personale non sanitario“, nonostante anche lui e i suoi colleghi avessero contatti diretti con pazienti Covid-19.

Tshepo*, radiografo del Sudafrica, ha contratto il Covid-19 dopo essere andato a lavorare senza dispositivi di protezione adeguati. I radiografi non sono stati considerati un gruppo “ad alto rischio“, nonostante fossero a contatto quotidianamente con pazienti Covid-19 e non hanno ricevuto mascherine N-95 fino ad aprile. Tshepo ha anche espresso preoccupazione per la mancanza di riabilitazione per il personale che aveva contratto il virus e sottolineato che il trauma legato alla diagnosi di una malattia potenzialmente mortale ha conseguenze durature.

Il mio corpo non è guarito completamente. Il virus ha colpito la mia respirazione, i seni paranasali e mi sento affaticato. Dovremmo poter fare fisioterapia per accompagnare la guarigione, unita alla consulenza per gestire il trauma“.

A sette mesi dall’inizio della pandemia, è davvero il momento che i governi inizino a dare la giusta considerazione al benessere degli operatori sanitari.

Ci sono molte azioni concrete che i gestori delle strutture sanitarie possono intraprendere: dovrebbero prevedere una rotazione per i lavoratori da funzioni maggiormente stressanti a funzioni a minore stress; facilitare la collaborazione dei lavoratori inesperti con i loro colleghi più esperti, oltre ad avviare, incoraggiare e monitorare le pause di lavoro. È fondamentale che ci sia flessibilità per i lavoratori che sono direttamente colpiti dal virus e che tutto il personale riceva informazioni su come accedere ai servizi di salute mentale.

La dedizione degli operatori sanitari è certamente meritevole, ma chiamarli “eroi” ci fa dimenticare il fatto che si tratta di esseri umani. E nessun essere umano può uscire indenne da mesi di contatto stretto con la morte e la malattia, orari di lavoro lunghi ed estenuanti e salari minimi.

In occasione della Giornata mondiale della salute mentale che si svolge il 10 ottobre, è necessario uno sforzo globale per proteggere gli operatori sanitari e affrontare l’intera gamma di sfide che la pandemia ha posto per la loro vita e il loro benessere.

Dobbiamo tutti molto a persone come Annalisa, Sarah, Laly, Ronald, e Tshepo, ed è giunta l’ora che i governi realizzino azioni concrete per dimostrare loro quanto valgono davvero.

Se gli operatori sanitari non sono sicuri, non lo siamo nemmeno noi.

*Tutti i nomi sono stati modificati per proteggere le identità degli operatori sanitari intervistati.