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“Sotto un regime dittatoriale basato sulla crudeltà e l’oppressione, l’unica cosa che sopravvive è il male“.
Queste sono le poche parole che Ahmet Şık è riuscito a pronunciare prima che gli intimassero di tacere in uno dei tanti processi che lo hanno visto coinvolto in Turchia.
Ahmet Şık è un giornalista investigativo di lungo corso e non è estraneo a persecuzioni e arresti per motivi politici.
È stato tenuto in prigione per più di un anno nel 2011 per aver scritto un libro sulla presunta infiltrazione nelle strutture statali da parte dei seguaci di Fethullah Gülen, all’epoca alleato del governo.
Nel dicembre 2016, Ahmet è stato di nuovo messo in custodia cautelare – ossia arrestato in attesa del processo – questa volta con l’accusa di aver fatto propaganda per il PKK e per quella che il governo chiama FETÖ (Organizzazione terroristica di Fethullah Gülen).
All’inizio, Ahmet è stato tenuto per due giorni in una cella sporca nella prigione di Metris, a Istanbul, senza accesso ad acqua potabile.
“L’arresto di Ahmet è un messaggio rivolto agli altri, a quelli che sono all’esterno: chiedete se ne avete il coraggio, parlatene se ne avete il coraggio“, dichiarava Yonca Verdioğlu, moglie di Ahmet.
Ahmet figurava tra i 18 imputati – giornalisti, avvocati, dirigenti e impiegati – del processo allo storico quotidiano turco Cumhuriyet.
Il caso, ritenuto soprattutto un processo alla libertà di stampa e di espressione, ha suscitato fin dall’inizio un grande interesse mediatico e l’attenzione di numerosi osservatori internazionali.
La sera del 9 marzo 2017, dopo aver trascorso oltre 500 giorni in detenzione preventiva, Ahmet Şık è stato rilasciato su cauzione. Con lui è stato rilasciato anche il direttore del quotidiano Cumhuriyet Murat Sabuncu.
L’ultima udienza del processo Cumhuriyet si è svolta nel giorno di Natale in un clima di tensione.
Ahmet Şık ha chiesto di poter leggere la sua dichiarazione, specificando che sarebbe durata due ore. I giudici hanno concesso a Şık di leggere, ma lo hanno interrotto dopo solo due minuti, accusandolo di istigare e di fare propaganda politica invece di presentare una memoria difensiva.
Le prime parole di Ahmet Şık all’uscita dal penitenziario di Silivri sono andate ad Akın Atalay, amministratore delegato del quotidiano che stava anche lui pagando con la prigione il suo impegno da giornalista.
Voglio sottolineare che non sono assolutamente felice. E non voglio che nemmeno voi lo siate in quanto Akın Atalay si trova ancora rinchiuso, come ultimo detenuto di questo complotto. Preferirei che foste arrabbiati, perché sarà la rabbia che ci terrà in piedi.
Dopo 500 giorni di prigione anche Akin è tornato in libertà. Una volta liberato l’amministratore delegato del giornale Cumhuriyet ha ricordato come la lotta per la libertà di stampa e la democrazia in Turchia non si ferma: il 90 per cento della stampa turca è ancora sotto controllo.
Lo stato d’emergenza in Turchia, imposto dopo il tentato colpo di stato del luglio 2016, è rimasto in vigore per tutto l’anno. Questo ha aperto la strada a limitazioni illegittime dei diritti umani e ha permesso al governo di approvare leggi senza il vaglio effettivo del parlamento e dei tribunali.
Oltre 50.000 persone sono state trattenute in custodia preventiva con l’accusa di appartenere all’ “organizzazione terroristica Fethullah Gülen“, che le autorità ritenevano responsabile del tentato colpo di stato.
Oltre 100 giornalisti e operatori dell’informazione da fine 2017 risultano in custodia cautelare.
Giornalisti di organi d’informazione chiusi dai decreti per lo stato d’emergenza hanno continuato ad affrontare azioni giudiziarie, condanne e reclusione.
Come Altan, altri 34 operatori dell’informazione che lavoravano per i quotidiani del gruppo Zaman si trovano in custodia preventiva.