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Aung San Suu Kyi interviene per la prima volta sulla persecuzione dell’etnia rohingya in corso nel nord dello stato di Rakhine, nel Myanmar. La leader birmana sostiene che il governo sta difendendo le persone “nel miglior modo possibile“.
Un atteggiamento che “è sembrato sottovalutare le terribili notizie provenienti dalla zona” ha commentato in una nota ufficiale Tirana Hassan, direttrice di Amnesty International per le risposte alla crisi, che si trova attualmente a Cox’s Bazar, in Bangledesh, presso il confine con Myanmar.
“Le decine di migliaia di rohingya schiacciati lungo il confine col Bangladesh e le migliaia di altri sfollati all’interno dello stato di Rakhine sono la prova evidente che l’esercito di Myanmar ha lanciato una violenta operazione di rappresaglia contro la popolazione prevalentemente musulmana dei rohingya. Il governo deve consentire l’ingresso immediato e senza ostacoli delle organizzazioni umanitarie, cui è ancora impedito di accedere nella zona settentrionale dello stato di Rakhine per portare aiuti agli sfollati“, ha aggiunto Hassan.
I recenti episodi di violenza nel nord del Rakhine si inseriscono in un contesto più ampio e di lunga data di discriminazione contro i Rohingya in Myanmar.
La loro condizione si era già deteriorata in modo significativo in seguito alle ondate di violenza in particolare tra buddisti e musulmani Rohingya, registrate nel Rakhine nel 2012 e che hanno causato decine di morti, sfollamenti e distruzione di proprietà.
Quasi cinque anni dopo, decine di migliaia di persone, soprattutto Rohingya, restano sfollate in squallidi campi, dove sono vivono letteralmente segregate.
Oltre un milione di Rohingya vive al di fuori dei campi per sfollati in Rakhine senza diritto alla libertà di movimento, all’istruzione e all’assistenza sanitaria. Queste persone non possono praticare la propria religione né hanno accesso a forme di sostentamento. L’attuazione di tali restrizioni ha portato ad arresti arbitrari, tortura e altri maltrattamenti, atti di estorsione e tangenti da parte delle forze di sicurezza dello Stato, spesso commessi in totale impunità.
Molti degli abusi che subiscono i Rohingya sono una conseguenza della mancanza di cittadinanza stabilita da una legge del 1982 del Myanmar che limita l’accesso a determinati gruppi in base alla loro appartenenza etnica.
Il rifiuto di riconoscere l’identità di questa comunità ha raggiunto tale livello che semplicemente l’uso della parola “Rohingya” è diventato politicamente controverso. Molte persone insistono a riferirsi a loro come “bengalesi” – un termine che implica che essi siano i migranti dal vicino Bangladesh.
Gruppi nazionalisti intransigenti, che promuovono atteggiamenti discriminatori nei confronti di Rohingya e altri musulmani, hanno acquisito sempre più potere e maggiore influenza negli ultimi anni.
Dopo una serie di attacchi compiuti il 25 agosto da un gruppo armato rohingya e le successive operazioni militari nello stato di Rakhine, circa 146.000 rohingya – per lo più donne e bambini – hanno attraversato il confine del Bangladesh, dove è in corso una grande crisi umanitaria.