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Negli ultimi anni Singapore ha continuato a mantenere obbligatoria la pena di morte come strumento di contrasto al traffico di droga. Nonostante dal 2013 le riforme abbiano favorito una diminuzione delle condanne a morte, la decisione sulla vita e la morte degli imputati è affidata ai magistrati che conducono le indagini, anziché i giudici.
In particolare, il report “Collabora o muori” basato sul lavoro dei nostri ricercatori e frutto di un’accurata analisi di atti giudiziari, mostra che i tribunali di Singapore continuano ad applicare l’obbligatorietà della pena di morte nei casi di traffico di droga anche se le riforme suggerirebbero maggiore moderazione.
“Singapore ama descriversi come un modello di progresso e prosperità ma il suo uso della pena di morte mostra un flagrante disprezzo per la vita umana. Le autorità fanno affidamento su leggi spietate che, nella maggior parte dei casi, colpiscono coloro che si trovano ai livelli più bassi della catena criminale, spesso provenienti da ambienti svantaggiati“, ha dichiarato in una nota ufficiale Chiara Sangiorgio, consulente di Amnesty International sulla pena di morte.
Le autorità singaporeane continuano a giustificare il mantenimento della pena di morte giudicandola uno strumento efficace per combattere la criminalità. Nel 2016, di fronte alle Nazioni Unite, il ministro degli Affari esteri Vivian Balakrishnan ha dichiarato: “Riteniamo che la pena di morte per i reati di droga e di omicidio siano stati fondamentali per tenere Singapore un paese libero dalla droga e renderlo sicuro”.
Con le riforme del 2013 gli imputati di reati di droga dovrebbero poter evitare l’obbligatorietà della condanna a morte fornendo sufficiente cooperazione alle autorità inquirenti durante gli interrogatori o il processo. Tuttavia, la decisione sulla sufficienza della cooperazione resta nelle mani dei magistrati e non in quelle dei giudici e la valutazione viene fatta a porte chiuse mediante procedure del tutto prive di trasparenza.
Nella maggior parte dei casi, le persone messe a morte negli ultimi quattro anni per reati di droga era in possesso di quantità relativamente esigue di droga e molte avevano sostenuto di essere entrate nello spaccio di stupefacenti per estinguere debiti o a causa della disoccupazione.
“L’obbligatorietà della condanna a morte deve terminare immediatamente. Anche se negli ultimi anni le condanne a morte sono diminuite, il fatto che vengano tuttora emesse è motivo di grande preoccupazione“, ha sottolineato Sangiorgio.
Come confermato da molteplici studi, anche delle Nazioni Unite, non vi è alcuna prova che la pena di morte abbia un effetto deterrente superiore rispetto ad altre sanzioni, come ad esempio l’ergastolo.
“Singapore si sbaglia se pensa che la pena di morte sia uno strumento efficace per ridurre i livelli di criminalità. La realtà è che la pena capitale è la massima punizione crudele, inumana e degradante e non ci rende più sicuri: lo ha riconosciuto gran parte dei paesi del mondo“, ha commentato Sangiorgio.
“Singapore dovrebbe immediatamente sospendere l’applicazione della pena di morte in vista dell’abolizione finale. Nel breve periodo, dovrebbe rendere coerente il suo sistema giudiziario col diritto internazionale e assicurare che i condannati a morte beneficino di tutte le protezioni di legge garantite dalle norme e dagli standard internazionali”, ha aggiunto Sangiorgio.
Pena di morte a Singapore: il contrasto degli abolizionisti
Rispetto agli anni Novanta, quando la città-stato era tra i paesi col più alto numero di esecuzioni pro-capite e metteva a morte decine di persone all’anno, Singapore ha fatto importanti passi avanti.
Negli ultimi tre anni sono state eseguite 10 condanne a morte (quattro delle quali nel 2016) e ne sono state emesse 17, tutte per reati di droga.
I reati di droga non rientrano nella categoria dei “reati più gravi” ai quali secondo il diritto internazionale dev’essere limitata l’applicazione della pena di morte.
Dopo l’introduzione delle riforme del 2013 le autorità di Singapore hanno reagito sempre più duramente nei confronti degli attivisti abolizionisti, compresi gli avvocati. Una legge entrata in vigore nel 2016 ha inasprito le già severe limitazioni alla possibilità di criticare le sentenze dei tribunali.
Nell’agosto 2017, ad esempio, l’Alta corte ha emanato una multa equivalente a oltre 4000 euro nei confronti dell’avvocato di un condannato a morte che aveva criticato su Facebook il sistema giudiziario nell’imminenza dell’impiccagione del suo cliente.
“Le autorità singaporeane non hanno mai dedicato grande attenzione al diritto alla libertà d’espressione e ora stanno cercando sempre di più di azzerare il dibattito sulla pena di morte. Le continue vessazioni nei confronti di chi sostiene il diritto alla vita devono cessare immediatamente“, ha concluso Sangiorgio.