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Col pretesto della sicurezza, Israele limita i movimenti di Laith Abu Zeyad, campaigner di Amnesty International su Israele e Palestina. Questo suo articolo è stato originariamente pubblicato qui. Pochi giorni dopo la pubblicazione dell’articolo la mamma di Laith è deceduta. Suo figlio non ha potuto salutarla per l’ultima volta.
Il 5 settembre ho ricevuto una tragica notizia: a mia madre era stato diagnosticato un tumore. Da quel giorno, ho dovuto aggiungere lo shock derivante dall’incertezza tra la vita e la morte all’impegno pubblico riguardante l’occupazione israeliana e il brutale controllo su ogni aspetto della vita quotidiana di chi, come me, è un palestinese della Cisgiordania occupata.
Quando ho saputo della malattia di mia madre, ho chiesto all’esercito israeliano il rilascio di un permesso di viaggio per accompagnarla a Gerusalemme Est per la prima seduta di chemioterapia.
Da decenni Israele impone un sistema di permessi che limita i movimenti dei palestinesi, che sono obbligati a chiedere un’autorizzazione speciale per entrare all’interno di Israele e a Gerusalemme Est per qualsivoglia ragione: lavoro, cure mediche, incontri familiari, visite a siti religiosi, culturali e archeologici.
Come succede in molti casi quando a chiedere il permesso sono giovani palestinesi, soprattutto di sesso maschile, le autorità israeliane me lo hanno negato per non precisate “ragioni di sicurezza“.
Questo significa che due volte al mese, quando mia madre si reca per la seduta di chemioterapia in un ospedale che dista 15 minuti di macchina dalla nostra abitazione, io non posso accompagnarla: devo rimanere a casa, in salotto, e aspettare che mi telefoni per dirmi com’è andata.
Ma l’atteggiamento punitivo di Israele non finisce qui. Il 26 ottobre volevo andare in Giordania per prendere parte ai funerali di mia zia e, di nuovo, sempre per “ragioni di sicurezza”, Israele me l’ha impedito.
L’occupazione israeliana riesce a separarci dalle persone care sia nella vita che nella morte e lo fa nei modi più orrendi e punitivi.
Io non ho modo di lasciare più la Cisgiordania occupata. Detto nel modo più semplice e definitivo: sono bloccato qui.
Le “ragioni di sicurezza” per le quali mi è impedito muovermi non mi sono mai state rese note. Ma quello che appare sempre più chiaro è che le autorità israeliane stanno colpendo con divieti di “sicurezza” noi difensori dei diritti umani per le nostre denunce sulle violazioni dei diritti umani da parte di Israele.
Quando nel 2017 sono diventato campaigner di Amnesty International su Israele e Palestina, ho ottenuto un permesso per recarmi al nostro ufficio di Gerusalemme Est. Ma all’inizio di quest’anno, il ministro per la Pubblica sicurezza Gilad Erdan ha chiesto ai suoi funzionari di “esaminare la possibilità di impedire l’ingresso e la permanenza di Amnesty International in Israele“.
Ha preso questa decisione dopo la pubblicazione del nostro rapporto sulle agenzie turistiche come TripAdvisor e Airbnb che fanno affari promuovendo viaggi negli insediamenti israeliani.
Ironia della sorte, nell’ultimo anno ho seguito casi di difensori dei diritti umani arrestati, raggiunti da divieto di viaggio o espulsi da Israele.
Il 17 settembre 2018 le autorità israeliane hanno arrestato Ayman Nasser, il coordinatore dell’ufficio legale del gruppo per i diritti dei detenuti palestinesi Addameer. Da allora è detenuto senza accusa né processo.
Il noto leader beduino Sayyah al-Turi è stato in carcere dal dicembre 2018 all’agosto 2019 per aver guidato la lotta degli abitanti di al-‘Araqib a rimanere nel loro villaggio, che le autorità israeliane hanno demolito a ripetizione.
All’inizio del 2019 le autorità israeliane non hanno rinnovato il permesso di viaggio a Omar Barghouti, difensore dei diritti umani e cofondatore del movimento Bds [Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni] impedendogli in questo modo di recarsi all’estero per il matrimonio della figlia.
Il fotogiornalista palestinese Mustafa al-Kharouf continua a essere a rischio di espulsione dopo che la sua richiesta di riunificazione familiare è stata respinta.
Questi tentativi di ridurre al silenzio i difensori dei diritti umani non riguarda solo i palestinesi. Un mese fa Omar Shakir, direttore di Human Rights Watch per Israele e Palestina e cittadino statunitense, è stato espulso per aver denunciato le violazioni dei diritti umani da parte di Israele.
Ecco le prove concrete di come Israele stia intensificando la sua guerra contro i difensori dei diritti umani e le organizzazioni della società civile. E io, che difendo i diritti di queste persone coraggiose, mi trovo a mia volta incatenato allo stesso modo.
Il crescente elenco di difensori dei diritti umani arrestati, aggrediti, a rischio di espulsione, raggiunti da divieti d’ingresso o di viaggio illustra il pesante prezzo che sono costretti a pagare per il loro cruciale lavoro per la promozione e la protezione dei diritti e delle libertà fondamentali. E quell’elenco è destinato ad allungarsi.
I difensori dei diritti umani oggi non sono in grado di portare avanti le loro azioni pacifiche senza temere rappresaglie da parte di Israele. Gli attivisti che osano denunciare le violazioni si trovano a operare in un clima sempre peggiore di paura, incertezza, provocazione e repressione.
Gli stati terzi, soprattutto quelli la cui politica estera si basa anche sulla protezione dei diritti umani come i membri dell’Unione europea, ogni tanto condannano questi provvedimenti arbitrari ma non intraprendono azioni concrete. Israele interpreta questa mancanza d’azione come un semaforo verde per proseguire a intensificare la repressione contro i difensori dei diritti umani. Ora è davvero il momento che prendano le difese di questi difensori dei diritti umani e dicano chiaramente che gli attacchi di Israele contro la società civile non saranno tollerati.