Rapporto 2020 – 2021

Asia e pacifico

AFP via Getty Images

L’avanzata della pandemia da Covid-19 ha esacerbato la situazione dei diritti umani nella regione dell’Asia e Pacifico. È stata la prima regione colpita dalla pandemia da Covid-19, poiché i primi casi sono stati segnalati nella città cinese di Wuhan, nel dicembre 2019. Quando le autorità cinesi hanno redarguito gli operatori sanitari che lanciavano avvertimenti su un nuovo virus, si sono sollevate richieste di trasparenza, non solo da persone in Cina ma anche da altri paesi della regione. È stato il primo di molti momenti durante l’anno in cui i governi hanno sfruttato la pandemia come pretesto per imbavagliare voci critiche e limitare indebitamente il diritto alla libertà d’espressione, compreso il diritto di ricevere e diffondere informazioni sul Covid-19.

 

Molti governi della regione hanno emanato leggi e misure per punire la diffusione di “disinformazione” o “false informazioni” sul Covid-19. Nei paesi in cui le autorità erano abituate ad abusare dei loro poteri, queste leggi sono state utilizzate per intensificare la repressione già esistente, in particolare sulle libertà d’espressione, associazione e riunione pacifica. Il dibattito aperto e le critiche alle risposte dei governi alla pandemia sono stati fortemente limitati. I governi di tutta la regione hanno sottoposto molti difensori dei diritti umani, giornalisti, avvocati e membri dell’opposizione politica ad attacchi, tra cui molestie, intimidazioni, minacce, violenze e arresti arbitrari, per la loro legittima espressione di dissenso e critica verso le azioni del governo.

Per prevenire l’ulteriore diffusione del Covid-19, i governi hanno messo in atto vari gradi di lockdown e altre limitazioni ai movimenti. Le assemblee pubbliche spesso non sono state consentite, limitando notevolmente le proteste che chiedevano riforme politiche. Nel corso dell’anno, tuttavia, soprattutto in India, Thailandia e Hong Kong, le persone sono scese in piazza per contrastare l’oppressione del governo. La polizia ha fatto uso eccessivo e non necessario della forza per disperdere queste assemblee pubbliche.

Molti governi hanno inoltre risposto alla pandemia da Covid-19 adottando o utilizzando come armi leggi repressive sulla sicurezza nazionale o contro il terrorismo. Queste leggi hanno consolidato il potere già esercitato da alcuni governi di questa regione. In India, il dissenso pacifico è stato punito e sono continuate le restrizioni alle comunicazioni e alle libertà fondamentali in Jammu e Kashmir; giornalisti e difensori dei diritti umani sono stati interrogati per presunte attività “antinazionali”.

Sebbene la regione dell’Asia e Pacifico abbia avuto meno morti rispetto ad altre parti del mondo, la pandemia è stata economicamente devastante e ha ulteriormente approfondito le divisioni sociali preesistenti. Ha colpito in modo sproporzionato gruppi già svantaggiati come lavoratori migranti, rifugiati, persone che vivono in povertà, minoranze etniche e religiose e i reclusi nelle carceri.

Le politiche sviluppate e imposte da molti governi per affrontare la diffusione del Covid-19 riflettevano le norme patriarcali esistenti che discriminano le donne. I lockdown hanno anche contribuito a un forte aumento del numero di casi di violenza sessuale e di genere contro donne e ragazze e i governi della regione non hanno fornito risorse adeguate per affrontare questo problema.

Le minoranze religiose ed etniche sono state attaccate in tutta la regione. Le autorità cinesi hanno proseguito la repressione sistematica degli uiguri e di altri musulmani turchi nella regione dello Xinjiang. I musulmani sono stati sotto attacco in India, dove durante la pandemia sono stati demonizzati ed è stato negato loro l’accesso a cure mediche. L’esercito di Myanmar ha continuato a eludere le sue responsabilità per i suoi crimini contro i rohingya. In Afghanistan e Pakistan, membri delle comunità minoritarie sono stati uccisi da gruppi armati.

La regione dell’Asia e Pacifico è stata colpita da disastri naturali legati al cambiamento climatico. I paesi della regione responsabili di alte percentuali di emissioni globali di gas serra non sono riusciti a fissare obiettivi di riduzione adeguati, che avrebbero contribuito a evitare gli effetti peggiori del cambiamento climatico sui diritti umani.

 

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE

A pochi giorni dalla notizia dell’epidemia di Covid-19, le autorità di diversi paesi della regione hanno cercato di mettere a tacere le informazioni al riguardo e hanno punito coloro che criticavano le azioni del governo. Le autorità cinesi hanno tentato di controllare le informazioni sul Covid-19, sia online che offline. Centinaia di parole chiave relative al virus sono state bloccate e le proteste online che chiedevano il diritto di ricevere e diffondere informazioni sul Covid-19 sono state cancellate. Il dottor Li Wenliang, una delle otto persone che hanno cercato di diffondere informazioni sul nuovo virus prima che il governo rivelasse l’epidemia, è stato redarguito dalla polizia dopo che aveva inviato messaggi ai colleghi in cui consigliava d’indossare dispositivi di protezione individuale (Dpi) per evitare il contagio. Successivamente è morto per gli effetti del Covid-19.

Diversi altri paesi della regione hanno imposto restrizioni simili su ciò che si poteva o non si poteva dire sul Covid-19, spesso con il pretesto di sopprimere informazioni false o imprecise. Ad aprile, le autorità indonesiane hanno ordinato alla polizia di perlustrare Internet e di agire contro gli “spacciatori di bufale” e coloro che insultavano il governo. Almeno 57 persone sono state arrestate. Giornalisti, accademici, studenti e attivisti sono stati oggetto d’intimidazioni online, comprese minacce di violenza fisica tramite sms. In India e Nepal, le autorità hanno arrestato o accusato decine di persone, molte delle quali giornalisti, per aver presumibilmente diffuso “disinformazione” o “fake news” sulla pandemia.

Molte persone, inclusi i giornalisti, che hanno criticato le risposte dei governi riguardo alla pandemia da Covid-19, sono state punite in base a leggi draconiane. In Sri Lanka, la polizia ha avvertito che sarebbe stata intrapresa un’azione legale contro chi pubblicava sui social media post critici verso la risposta del governo al Covid-19. Dopo l’annuncio, diversi utenti dei social media che postavano commenti critici sono stati arrestati. In Bangladesh, quasi 1.000 persone sono state incriminate ai sensi della legge per la sicurezza digitale, mentre 353 sono state detenute. Tra i primi bersagli ci sono stati i giornalisti Mohiuddin Sarker e Toufiq Imroz Khalidi, entrambi redattori di portali online. Le autorità li hanno arrestati ad aprile per i servizi in cui denunciavano la corruzione nell’uso dei fondi designati per i soccorsi del Covid-19. In Pakistan, la legge sui reati elettronici è stata più volte invocata per incriminare o arrestare giornalisti per commenti critici online, che spesso hanno comportato attacchi feroci e coordinati su Internet.

I giornalisti hanno continuato a subire ritorsioni per aver riportato notizie non gradite ai governi. In Myanmar, in seguito alla designazione come “organizzazione terroristica” dell’Esercito di Arkana, un gruppo di opposizione armata di minoranza etnica, almeno tre giornalisti sono stati perseguiti ai sensi delle leggi antiterrorismo e della legge sulle associazioni illegittime per aver contattato il gruppo. In Jammu e Kashmir, la polizia indiana ha attaccato o convocato 18 giornalisti per i loro articoli e gli uffici del The Kashmir Times sono stati chiusi, dopo che il suo editore ha citato in giudizio il governo per la chiusura dei servizi Internet e telefonici nella regione. In Nepal, il governo ha introdotto diversi nuovi progetti di legge che minacciavano il diritto alla libertà d’espressione, online e offline. A Singapore, anche se è stata impugnata in tribunale, per tutto l’anno le autorità hanno utilizzato la legge sulla protezione dalle falsità e dalle manipolazioni online per imbavagliare chi criticava il governo e i media indipendenti. Nelle Filippine, i giornalisti Maria Ressa e Reynaldo Santos sono stati condannati per “diffamazione informatica” e i legislatori hanno negato il rinnovo della concessione ad ABS-CBN, una delle più grandi reti di trasmissione indipendenti del paese.

Il diritto alla libertà d’espressione, che include il diritto di ricevere e trasmettere informazioni, è in particolar modo essenziale durante una crisi che riguarda la salute pubblica. I governi devono comprendere appieno che l’accesso a informazioni credibili, obiettive e basate su prove relative alla pandemia da Covid-19 salva vite umane. Il ruolo dei giornalisti e dei media nel fornire informazioni affidabili al pubblico durante una crisi che riguarda la salute pubblica è vitale. Essi svolgono anche un ruolo importante nel richiamare l’attenzione su questioni d’interesse pubblico e nel difendere i diritti umani. Invece di ostacolare tali sforzi, i governi devono permettere, promuovere e proteggere organi d’informazione forti e indipendenti nella regione.

 

DIFENSORI DEI DIRITTI UMANI

Difensori dei diritti umani, inclusi giornalisti, avvocati e membri dell’opposizione politica, hanno continuato a essere attaccati, molestati, intimiditi, minacciati e uccisi per la loro legittima difesa dei diritti umani, per l’espressione di dissenso e critica nei confronti delle azioni dei governi e della corruzione.

In Cina, difensori dei diritti umani e attivisti hanno subìto molestie, intimidazioni, sparizioni forzate, tortura e altri maltrattamenti e detenzioni arbitrarie e in incommunicado. Spesso sono stati anche accusati di reati formulati in modo vago come “divulgazione di segreti di stato”. I loro processi sono stati regolarmente tenuti in segreto e sono stati privati del diritto di accesso all’assistenza legale. A molti avvocati di questi difensori dei diritti umani è stato negato il diritto alla libertà di movimento e non hanno potuto incontrare i loro clienti e accedere ai materiali del caso.

Durante l’anno, molti governi della regione hanno tentato di minare le attività delle Ong per i diritti umani per impedire ai difensori dei diritti umani di continuare a denunciare le violazioni. Le autorità cambogiane hanno utilizzato la repressiva legge sulle associazioni e le Ong per designare come illegali gruppi di difensori dei diritti umani che mettevano in luce pratiche che danneggiavano l’ambiente. A settembre, Amnesty International India è stata costretta a interrompere le proprie attività, dopo che le autorità indiane hanno congelato i suoi conti bancari. Durante l’anno, l’organizzazione aveva pubblicato rapporti sulle violazioni dei diritti umani avvenute durante e dopo i disordini di Delhi a febbraio, in cui 53 persone, per lo più musulmane, sono state uccise e oltre 500 ferite. Le rivolte sono seguite a discorsi provocatori di funzionari governativi e legislatori ma, a mesi di distanza, non c’erano state indagini efficaci su quanto accaduto e nemmeno sulla documentata complicità e partecipazione alla rivolta da parte della polizia di Delhi. Amnesty International India ha anche pubblicato un rapporto su Jammu e Kashmir, in cui denunciava le violazioni avvenute dopo la revoca dello status speciale del territorio nell’agosto 2019.

In Malesia e Afghanistan, i difensori dei diritti umani che hanno richiamato l’attenzione sulle pratiche di corruzione delle autorità governative hanno affrontato gravi sfide nel corso dell’anno. Cynthia Gabriel, del Centro per la lotta alla corruzione e al clientelismo, insieme agli altri difensori dei diritti umani Thomas Fann e Sevan Doraisamy sono stati indagati dalle autorità malesi per aver sollevato scandali di corruzione collegati a funzionari pubblici. Difensori dei diritti umani che hanno denunciato la corruzione contro funzionari della provincia di Helmand in Afghanistan sono stati ricoverati in ospedale per le ferite riportate in seguito ad aggressioni da parte di funzionari governativi. Inoltre, difensori dei diritti umani, attivisti, giornalisti e autorità religiose moderate sono stati vittime di attacchi mirati e omicidi, in particolare da parte di gruppi armati.

I governi hanno utilizzato misure antiterrorismo contro i difensori dei diritti umani o li hanno etichettati come “terroristi” in diversi paesi, tra cui Filippine e India. Le autorità filippine hanno continuato la pratica di “schedare in rosso” i difensori dei diritti umani e gli attivisti come “terroristi” o simpatizzanti di gruppi comunisti armati. Ad agosto, Randall Echanis e Zara Alvarez sono stati uccisi, a una settimana l’uno dall’altra, in diverse città. Entrambi erano stati classificati come “terroristi” dal governo per il loro attivismo e il loro lavoro sui diritti umani. Durante l’anno, l’agenzia nazionale d’investigazione indiana (National Investigation Agency – Nia), la principale agenzia antiterrorismo del paese, ha arrestato diversi difensori dei diritti umani e ha fatto irruzione nelle loro case e nei loro uffici. Tra gli arrestati figuravano sette difensori dei diritti umani che lavoravano con gruppi marginalizzati e nove studenti che hanno protestato pacificamente contro la discriminatoria legge sulla cittadinanza. La Nia ha anche fatto irruzione negli uffici e nelle case del difensore del Kashmir Khurram Parvez e di tre suoi colleghi.

Mentre il conflitto in Afghanistan entrava nel suo ventesimo anno, difensori dei diritti umani sono stati feriti e uccisi da uomini armati sconosciuti, ritenuti appartenere a gruppi armati, tra cui due membri del personale della Commissione afgana indipendente per i diritti umani, uccisi in un attacco alla loro auto a Kabul. A dicembre, il presidente Ghani ha creato una commissione congiunta per la protezione dei difensori dei diritti umani. Questo è stato visto dalle organizzazioni come un primo significativo passo avanti. Tuttavia, appariva come l’unico sviluppo in una regione che aveva promesso di affrontare le sistematiche violazioni contro i difensori dei diritti umani. In Sri Lanka, il nuovo governo ha continuato a reprimere i difensori dei diritti umani, inclusi attivisti, giornalisti, agenti della forza pubblica e avvocati.

 

I governi devono affrontare efficacemente gli atti di violenza contro i difensori dei diritti umani e i perpetratori di questi atti devono essere chiamati a risponderne. È fondamentale che i difensori dei diritti umani siano in grado di svolgere il loro lavoro senza paura di punizioni, rappresaglie o intimidazioni, in modo che ciascuno possa effettivamente godere di tutti i diritti umani.

 

DIRITTO ALLA SALUTE

La pandemia da Covid-19 ha evidenziato ed esacerbato le lacune nella parità di accesso all’assistenza sanitaria e le divisioni sociali preesistenti nella regione. In Corea del Nord, la mancanza di forniture mediche ha spinto la classe media emergente ad assicurarsi medicinali o servizi sanitari nel cosiddetto “mercato nero”. A Papua Nuova Guinea, alti tassi di povertà e altre malattie croniche hanno aggravato la situazione delle persone contagiate dal Covid-19.

In Cambogia e nelle Filippine, sono proseguite le campagne antidroga, che hanno enfatizzato la criminalizzazione e la pratica della detenzione arbitraria senza accusa di persone che hanno fatto uso di droghe, causando un eccessivo sovraffollamento delle carceri, che violava il diritto alla salute dei detenuti. Nelle Filippine, la Corte suprema ha ordinato il rilascio di oltre 80.000 prigionieri per prevenire la diffusione del Covid-19 nelle carceri. In Cambogia, le autorità hanno rivelato piani per ridurre il sovraffollamento carcerario ma l’attuazione è stata limitata.

In Malesia, le autorità hanno condotto irruzioni contro l’immigrazione in aree con un’elevata popolazione di lavoratori migranti e hanno arrestato e detenuto molti migranti e rifugiati. Un focolaio di Covid-19 ha colpito i centri di detenzione per immigrati e oltre 600 detenuti sono stati contagiati.

 

I governi devono garantire l’accesso alle strutture e ai servizi sanitari senza discriminazioni.

 

DISCRIMINAZIONE – ATTACCHI ALLE MINORANZE ETNICHE E RELIGIOSE

In tutta la regione, le minoranze etniche e religiose hanno continuato a subire discriminazioni, violenze e altre forme di persecuzione per mano delle autorità.

A gennaio, la Corte internazionale di giustizia ha ordinato al governo di Myanmar d’impedire atti di genocidio contro i rohingya. Le autorità di Myanmar non sono riuscite a garantire l’accertamento delle responsabilità per le operazioni militari nello stato di Rakhine del 2017, che causarono la fuga in Bangladesh di oltre 700.000 rohingya. Nel contesto delle operazioni anti-insurrezionali, le forze di sicurezza hanno continuato a commettere violazioni dei diritti umani e violazioni del diritto internazionale umanitario contro altre minoranze etniche, negli stati di Rakhine, Chin, Kachin e Shan.

In Cina, le autorità hanno giustificato la discriminazione e persecuzione nei confronti dei tibetani, degli uiguri e di altri popoli musulmani nella regione dello Xinjiang, sulla base della lotta a “separatismo”, “estremismo” e “terrorismo”. Le autorità cinesi hanno continuato a sottoporre uiguri e altri musulmani a detenzioni arbitrarie senza processo, indottrinamento politico e assimilazione culturale forzata. Nel corso dell’anno, hanno rafforzato le restrizioni all’accesso allo Xinjiang e hanno continuato a istituire campi d’internamento di massa.

Iminjan Seydin, scomparso da tre anni, è riapparso a maggio e ha elogiato le autorità cinesi in una testimonianza evidentemente forzata. Mahira Yakub, una uigura che lavorava per una compagnia di assicurazioni, è stata accusata di “aver fornito sostegno materiale ad attività terroristiche”, dopo che aveva inviato denaro ai suoi genitori in Australia, per aiutarli a comprare una casa. Nagyz Muhammed, uno scrittore kazako arrestato a marzo 2018, è stato condannato in segreto per “separatismo”, per una cena con amici nel giorno dell’indipendenza del Kazakistan quasi 10 anni prima.

Gli uiguri hanno subìto pressioni anche al di fuori della Cina. Le ambasciate e gli agenti cinesi hanno continuato a molestare e intimidire le persone che avevano lasciato il paese ed erano andate in esilio. Gli agenti di sicurezza cinesi hanno vessato gli uiguri all’estero tramite applicazioni di messaggistica, chiedendo loro di fornire i dati dei documenti d’identità, luoghi di residenza e altri dettagli. Alcuni hanno ricevuto telefonate dalla polizia di sicurezza cinese, che chiedeva loro di spiare le comunità uigure della diaspora.

Nella Mongolia interna sono scoppiate proteste per una nuova politica linguistica nelle scuole, che avrebbe cambiato la lingua d’insegnamento per alcune classi dal mongolo al cinese mandarino. Secondo quanto riferito, centinaia di persone che hanno protestato, tra cui studenti, genitori, insegnanti, donne incinte, bambini, sono state arrestate per aver “attaccato briga e provocato guai”. Hu Baolong, un avvocato per i diritti umani che ha fatto sentire la sua voce durante le proteste, sarebbe stato arrestato con l’accusa di “divulgazione di segreti di stato all’estero”.

In alcuni paesi, le minoranze etniche e religiose hanno subìto il peso maggiore dell’impatto della pandemia da Covid-19. I musulmani dell’India sono stati, insieme ad altri gruppi, ulteriormente emarginati. Dopo che un gruppo musulmano, il Tablighi Jamaat, è stato accusato di aver diffuso il virus in una riunione pubblica, a molti musulmani è stato negato l’accesso ai servizi medici e ai beni essenziali. Sui social media sono apparsi appelli per boicottare le imprese islamiche. In Sri Lanka, le autorità hanno impedito ai musulmani di seppellire le persone morte a causa del Covid-19 secondo i loro riti religiosi e hanno invece cremato i corpi contro le loro volontà. Secondo quanto riferito, il governo dello Sri Lanka ha messo in atto una profilazione razziale della comunità musulmana del paese, indicandola come fonte di maggior rischio durante la pandemia.

In Afghanistan, almeno 25 persone sono state uccise quando il gruppo armato che si autodefinisce Stato islamico ha attaccato uno dei pochi templi sikh del paese. Anche la comunità hazara, a maggioranza sciita, ha subìto numerosi attacchi da parte di gruppi armati, compreso un attentato a ottobre contro una scuola di Kabul, che ha ucciso 30 persone, per lo più bambini.

In Pakistan, la comunità ahmadi è stata oggetto di aggressioni, boicottaggi sociali ed economici e di almeno cinque uccisioni mirate. Durante il mese sacro musulmano di Muharram, i predicatori d’odio hanno incitato alla violenza contro la minoranza sciita del paese e sono stati avviati quasi 40 casi di blasfemia contro religiosi sciiti. A luglio, piegandosi alle pressioni di politici, alcuni media e religiosi, le autorità pakistane hanno interrotto la costruzione di un tempio indù nella capitale Islamabad, negando alla comunità il diritto alla libertà di religione e credo. Il governo pakistano non è riuscito a prendere provvedimenti efficaci contro le conversioni forzate all’islam di donne e ragazze delle comunità indù e cristiane.

 

I governi devono garantire che i diritti umani delle minoranze etniche e religiose siano tutelati. Inoltre, devono facilitare la parità di accesso all’assistenza sanitaria per tutti i gruppi minoritari e adottare misure per porre fine alla discriminazione sistemica nei loro confronti.

 

DONNE E RAGAZZE

La pandemia da Covid-19 ha evidenziato ed esacerbato le disparità esistenti tra uomini e donne nella regione. Le risposte dei governi alla pandemia riflettevano norme patriarcali e stereotipi di genere che sottovalutano le donne.

Nel settore informale, dove erano generalmente pagate meno degli uomini, migliaia di donne sono state improvvisamente private dei loro mezzi di sussistenza e costrette ad assumersi ulteriori responsabilità di cura a casa, come l’istruzione dei bambini o la cura dei parenti malati. Negli anni precedenti, le donne nella regione dell’Asia e Pacifico hanno svolto più del quadruplo del lavoro non retribuito a casa rispetto agli uomini. Questi numeri sono aumentati notevolmente durante la pandemia.

Le donne hanno costituito anche la maggioranza dei lavoratori essenziali durante la pandemia, inclusi medici, infermiere, operatrici sanitarie e altri ruoli. In Pakistan, quando a maggio sono esplose le violenze contro gli operatori sanitari, un gruppo di operatrici sanitarie è stato costretto a rinchiudersi in una stanza per proteggersi, mentre i parenti dei pazienti, infuriati, vandalizzano l’ospedale in cui lavoravano.

Le lavoratrici domestiche migranti nel Golfo, che provengono in maggioranza dalla regione dell’Asia e Pacifico, hanno perso il lavoro e sono state costrette a tornare a casa all’inizio della pandemia. Nella maggior parte dei pacchetti di aiuto finanziario nazionale nella regione, non c’erano disposizioni speciali per le necessità di queste donne, nemmeno protezioni sociali.

Molti governi della regione non hanno classificato i servizi per le donne come essenziali, rendendoli non operativi durante i lockdown, compresi quelli creati per sostenere o assistere le donne che subiscono violenza sessuale o di genere. Le donne e le ragazze che già vivevano con partner o familiari violenti sono state ulteriormente a rischio di violenza. Il numero di casi di violenza domestica e di violenza da parte del partner è aumentato notevolmente in tutta la regione. In Giappone, solo ad aprile sono stati segnalati 13.000 casi, un aumento del 29 per cento rispetto allo stesso mese del 2019.

Le donne hanno continuato a essere sottoposte a feroci attacchi misogini. In Indonesia, gli obiettivi degli attacchi digitali hanno incluso testate giornalistiche femministe. Una giornalista ha subìto una violazione del suo account ed è stata molestata da aggressori che le hanno inviato immagini pornografiche e dichiarazioni umilianti sulle donne. In Corea del Sud, la diffusione della violenza online contro donne e ragazze è diventata sempre più evidente con gli arresti dei responsabili di crimini sessuali digitali, che avevano ricattato più di 70 donne e ragazze facendo loro condividere video e fotografie di sfruttamento sessuale, che hanno poi diffuso tramite applicazioni di messaggistica.

In Cambogia, il primo ministro Hun Sen ha attaccato pubblicamente il diritto delle donne alla libertà d’espressione, invocando concetti arbitrari di “tradizione” e “cultura” per giustificare il controllo del corpo e delle scelte delle donne. A gennaio, ha ordinato alla polizia di agire contro le donne che pubblicizzavano prodotti su Facebook con abiti presumibilmente “succinti”. Dopo pochi giorni, una venditrice su Facebook è stata arrestata e accusata di aver prodotto “pornografia” per i vestiti che indossava. L’assalto ai diritti delle donne in Cambogia si è intensificato a giugno, quando il governo ha cercato di trasformare queste pene in legge, criminalizzando l’uso di abiti ritenuti “troppo corti” o “troppo trasparenti”. Il progetto di legge ha innescato le proteste online di molte donne e ragazze.

La violenza contro le donne e l’impunità per questi crimini sono perdurate in diversi paesi. A Papua Nuova Guinea, le accuse di stregoneria hanno messo le donne ad alto rischio di violenza. In Afghanistan, hanno continuato a subire discriminazioni e violenze di genere, soprattutto nelle zone controllate dai talebani, dove sono state inflitte “punizioni” violente per presunte trasgressioni delle interpretazioni del diritto islamico del gruppo armato. Nel corso dell’anno, in Afghanistan sono stati segnalati oltre 100 casi di omicidio legati alla violenza contro le donne, che hanno messo in evidenza il persistente fallimento del governo nell’indagare su questi omicidi e nell’affrontare efficacemente la violenza contro le donne. Nelle isole Figi, l’ex capitano di una squadra di rugby condannato per stupro a otto anni di reclusione è stato autorizzato a riprendere gli allenamenti dopo aver scontato meno di un anno della condanna.

In Pakistan, una marcia annuale in occasione della Giornata internazionale delle donne è stata oggetto di diversi attacchi, prima nei tribunali, nel tentativo di vietare la marcia, poi il giorno stesso della marcia, quando a Islamabad un gruppo religioso ha aggredito con lanci di pietre le manifestanti, che non sono state protette dalla polizia. A settembre, lo stupro di gruppo di una donna su un’autostrada ha suscitato indignazione nazionale, con richieste di dimissioni del massimo ufficiale di polizia provinciale e pene più dure per gli stupratori. A dicembre, il governo ha approvato un’ordinanza che cercava di accelerare i processi per stupro e di punire i colpevoli con la castrazione chimica forzata. Amnesty International ha espresso preoccupazione poiché la castrazione chimica forzata viola gli obblighi internazionali e costituzionali del Pakistan di vietare la tortura e altri trattamenti crudeli, disumani o degradanti.

In India e Nepal, gli stupri delle donne dalit hanno scatenato reazioni di rabbia. A maggio, una ragazza dalit di 12 anni è stata costretta a sposare il suo presunto stupratore, un uomo di una casta dominante, nel distretto di Rupandehi, in Nepal. A settembre, un’altra ragazza dalit di 12 anni è stata violentata e uccisa nel distretto di Bajhang, presumibilmente da un uomo che un mese prima era sfuggito all’accusa per un altro stupro di una ragazza di 14 anni. Sempre a settembre, una donna dalit è stata violentata e uccisa da un gruppo di uomini di casta dominante a Hathras, nello stato indiano dell’Uttar Pradesh. Il suo corpo è stato cremato dalla polizia senza il consenso della famiglia. Gli accusati sono stati arrestati solo dopo che nel paese sono scoppiate proteste per chiedere giustizia e accertamento delle responsabilità.

In Corea del Sud sono state prese misure per affrontare i vari problemi della violenza contro le donne, con l’approvazione di leggi per migliorare la protezione di donne e ragazze dallo sfruttamento e dagli abusi sessuali. L’assemblea nazionale ha aumentato le punizioni per i reati sessuali digitali. Anche l’età del consenso è stata aumentata da 13 a 16 anni, senza discriminazioni, ed è stato rimosso il termine di prescrizione per i reati che coinvolgono lo sfruttamento sessuale di minori.

 

Nello sviluppare la risposta alla pandemia e la successiva ripresa, i governi devono dare la priorità al progresso dell’uguaglianza di genere e all’eliminazione della violenza di genere e di stereotipi di genere dannosi. Le donne devono anche essere coinvolte in tutte le fasi dei processi decisionali legislativi, politici e finanziari, nello sviluppo della risposta alla pandemia e nei piani di ripresa dei governi nella regione.

 

MANCATO INTERVENTO SUL CAMBIAMENTO CLIMATICO

La regione dell’Asia e Pacifico è particolarmente vulnerabile agli effetti della crisi climatica. Nel 2020, una serie di eventi climatici traumatici ha avuto conseguenze negative per i diritti umani nella regione. L’India è stata duramente colpita dal supertifone Amphan, mentre Bangladesh, Nepal e Myanmar hanno subìto inondazioni diffuse che hanno lasciato milioni di persone sfollate. In Australia si sono verificati incendi boschivi senza precedenti, che hanno causato sfollamenti e inquinamento atmosferico.

Nonostante la gravità dell’impatto, i paesi della regione maggiormente responsabili delle emissioni globali non sono riusciti a fissare obiettivi di riduzione adeguati, che avrebbero contribuito a evitare i peggiori effetti del cambiamento climatico sui diritti umani. L’Australia, che è diventata il più grande esportatore di combustibili fossili al mondo, non è riuscita a fissare un obiettivo più ambizioso di riduzione delle emissioni per il 2030 né a impegnarsi a raggiungere emissioni zero a lungo termine. Anche se Giappone e Corea del Sud hanno annunciato obiettivi di neutralità delle emissioni di carbonio per il 2050 e la Cina per il 2060, non sono riusciti a dimostrare che stavano prendendo tutte le misure possibili per raggiungere questi obiettivi in tempo, come dovrebbero fare per evitare di causare danni significativi ai diritti umani delle persone dentro e fuori dai loro paesi.

 

I governi devono adottare e attuare con urgenza obiettivi e strategie di riduzione delle emissioni che proteggano i diritti umani dalla crisi climatica e assicurino una transizione giusta e in linea con i diritti umani verso un’economia a zero emissioni di carbonio e una società resiliente.

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