La situazione dei diritti umani nell’Africa Subsahariana è stata caratterizzata da una violenta repressione nei confronti di manifestanti pacifici e da attacchi coordinati a oppositori politici, difensori dei diritti umani e organizzazioni della società civile.

Contemporaneamente, l’implacabile violenza contro i civili nel contesto degli annosi conflitti è stata aggravata dall’immobilità politica nel risolvere queste crisi. Le violazioni dei diritti umani e gli abusi compiuti nel corso dei conflitti, compresi crimini di diritto internazionale, sono rimasti costantemente impuniti.

L’intolleranza verso il dissenso pacifico e un radicato disprezzo per il diritto alla libertà di riunione pacifica sono diventati sempre più spesso la norma. Da Lomé a Freetown, da Khartoum a Kampala, da Kinshasa a Luanda, si sono verificati arresti di massa contro manifestanti non violenti, così come percosse, uso eccessivo della forza e, in alcuni casi, uccisioni.

L’immobilità politica e i fallimenti degli organismi regionali e internazionali nell’affrontare gli annosi conflitti e le loro cause hanno rischiato di diventare la normalità e di causare ulteriori violazioni, nell’impunità.

Queste tendenze si sono inserite in un contesto in cui i passi avanti fatti nella riduzione della povertà e i limitati avanzamenti in termini di sviluppo umano sono stati lenti e spesso a fasi alterne.

Secondo il Rapporto sullo sviluppo sostenibile dell’Africa, la diminuzione dell’indice di povertà assoluta procedeva con lentezza e le persone più colpite dall’indigenza erano le donne e i giovani.

Tuttavia, non sono mancati segnali di speranza e di progresso, che raramente hanno ottenuto l’attenzione della stampa mondiale: il coraggio di persone comuni e dei difensori dei diritti umani, che hanno lottato per chiedere giustizia, uguaglianza e dignità, nonostante la repressione.

In alcuni paesi ci sono state importanti riforme. Il Gambia ha revocato la sua decisione di ritirarsi dalla giurisdizione dell’Icc, ha liberato prigionieri politici e promesso l’abolizione della pena di morte. La bozza della nuova costituzione del Burkina Faso comprendeva disposizioni che avrebbero rafforzato la protezione dei diritti umani.

Altrettanto esemplari sono state due sentenze storiche per i diritti umani. La decisione dell’Alta corte del Kenya di bloccare la programmata chiusura del campo di Dadaab, il più grande campo per rifugiati del mondo, ha impedito il rimpatrio forzato di oltre un quarto di milione di rifugiati verso la Somalia, dove sarebbero stati a rischio di subire gravi abusi. In Nigeria, due sentenze hanno stabilito che qualsiasi minaccia di sgombero forzato senza la dovuta notifica agli interessati era da ritenersi illegale e che sia gli sgomberi forzati sia la minaccia di attuarli costituivano un trattamento crudele, disumano e degradante.
La Corte costituzionale dell’Angola ha sancito l’incostituzionalità della legislazione che si proponeva di ostacolare il lavoro delle organizzazioni della società civile.

REPRESSIONE DEL DISSENSO

Giro di vite sulle proteste

In oltre 20 paesi, le autorità hanno negato alle persone il diritto di protestare pacificamente, anche attraverso divieti illegali, uso eccessivo della forza, vessazioni e arresti arbitrari. Il diritto alla libertà di riunione era l’eccezione più che la regola.

In Angola, Ciad, Repubblica Democratica del Congo (Democratic Republic of the Congo – Drc), Etiopia, Sudan, Togo, così come in altri paesi, le autorità hanno adottato misure legislative, amministrative e di altro tipo, allo scopo d’imporre restrizioni e divieti alle proteste pacifiche.

In Angola, le autorità hanno frequentemente impedito lo svolgimento di manifestazioni non violente, anche quando la legge non prevedeva l’obbligo di ottenere prima un’autorizzazione. In Ciad, sono state vietate almeno sei riunioni pacifiche e molti organizzatori e partecipanti sono stati arrestati. Nella Drc, le autorità hanno vietato e represso proteste non violente, in particolare quelle organizzate in relazione alla crisi politica innescata dal rinvio delle elezioni. In Sudan, alle organizzazioni della società civile, all’opposizione politica e agli studenti del Darfur è stato impedito di tenere eventi pubblici.

In molti paesi, l’uso eccessivo della forza e altri abusi commessi per disperdere proteste pacifiche hanno causato morti, feriti e arresti illegali. In Angola, le poche manifestazioni che si sono tenute sono state caratterizzate da detenzioni e maltrattamenti da parte della polizia e delle forze di sicurezza. In Camerun, le forze di sicurezza hanno represso con violenza le proteste nelle regioni anglofone. A seguito delle elezioni generali, la polizia del Kenya è intervenuta facendo uso eccessivo della forza contro i manifestanti dell’opposizione, anche sparando proiettili veri e gas lacrimogeni e provocando varie decine di morti, almeno 33 dei quali sono caduti sotto i colpi sparati dalla polizia, compresi due minori.
In Togo, almeno 10 persone, tra cui tre bambini e due membri delle forze armate, sono state uccise durante la repressione delle forze di sicurezza, che hanno frequentemente picchiato i manifestanti e sparato gas lacrimogeni e proiettili veri contro di loro. Le forze di sicurezza della Sierra Leone hanno aperto il fuoco sugli studenti, che manifestavano contro uno sciopero attuato dal corpo docente nella città di Bo, uccidendone uno e ferendone altri. Il governo dell’Uganda non ha esitato a ricorrere a irruzioni, arresti, intimidazioni e vessazioni per impedire lo svolgimento di raduni pacifici e per imbavagliare coloro che si opponevano a un emendamento costituzionale, che avrebbe cancellato il limite di 75 anni per i futuri candidati presidenziali.

Attacchi a difensori dei diritti umani, giornalisti e attivisti d’opposizione

La diffusa repressione del dissenso si è inoltre manifestata attraverso attacchi contro difensori dei diritti umani, organizzazioni della società civile, giornalisti e blogger.

In Camerun, attivisti della società civile, giornalisti, sindacalisti e insegnanti sono stati arbitrariamente arrestati e, in alcuni casi, processati davanti a tribunali militari. Il governo ha vietato le attività di partiti politici e organizzazioni della società civile. Molti sono rimasti in detenzione in relazione a imputazioni pretestuose in materia di sicurezza nazionale.
Le autorità del Ciad hanno arrestato e perseguito penalmente difensori dei diritti umani, attivisti e giornalisti, nell’intento di mettere a tacere le critiche verso il governo, anche in risposta alla rabbia alimentata dalla crisi economica.
In Guinea Equatoriale, la polizia ha arrestato attivisti, mettendo in luce l’intenzione delle autorità di usare in modo improprio le leggi per intimidire e imbavagliare il dissenso.
In Eritrea, migliaia di prigionieri di coscienza e prigionieri politici sono stati detenuti senza accusa o accesso a un avvocato o ai familiari; molti erano in carcere da oltre 10 anni.
In Etiopia, sono proseguite le detenzioni arbitrarie ai sensi dello stato d’emergenza, fino a quando questo è stato revocato a giugno. Il governo ha disposto il rilascio di 10.000 delle 26.000 persone detenute dal 2016 in applicazione dello stato d’emergenza. Contemporaneamente, centinaia di persone sono state arrestate ai sensi del draconiano proclama antiterrorismo, spesso utilizzato per prendere di mira coloro che criticavano il governo.
In Mauritania, Mohamed Mkhaïtir, un blogger accusato di apostasia, ha ottenuto la commutazione della condanna a morte ma è rimasto detenuto anche dopo avere scontato la sua pena carceraria. Le autorità hanno continuato a tenere in carcere anche due attivisti contro la schiavitù.
Le autorità del Madagascar hanno intimidito e vessato giornalisti e difensori dei diritti umani, nell’intento di metterli a tacere. Coloro che osavano denunciare apertamente il traffico e lo sfruttamento illegali delle risorse naturali sono stati sempre più spesso presi di mira con accuse di rilevanza penale.
Il governo del Sudan ha continuato a soffocare il dissenso, colpendo esponenti di partiti politici d’opposizione, sindacalisti, difensori dei diritti umani e studenti, che sono stati presi di mira dalle forze di sicurezza, vittime di arresti arbitrari e detenzioni sulla base di accuse inventate e regolarmente sottoposti a tortura e altri maltrattamenti.
In Zambia, la legge sull’ordine pubblico è stata utilizzata per reprimere i diritti alla libertà d’espressione, associazione e riunione pacifica, in particolare contro attivisti della società civile critici verso le autorità e leader di partiti politici d’opposizione. La polizia è intervenuta facendo uso eccessivo della forza contro manifestanti pacifici, mentre ha ignorato la violenza perpetrata dai sostenitori del partito di governo contro gli attivisti della società civile.
Nello Zimbabwe, il pastore protestante Evan Mawarire, fondatore del movimento #Thisflag, è stato al centro di una persecuzione politica e sottoposto a vessazioni fino alla sua assoluzione, ottenuta dopo che a novembre era cambiato il governo.
L’accademica ugandese Stella Nyanzi è stata detenuta per oltre un mese per alcuni post pubblicati su Facebook, in cui criticava il presidente e sua moglie, che era ministro dell’Istruzione.

Adozione di leggi regressive e riduzione dello spazio politico

Alcuni governi hanno adottato nuove leggi con l’obiettivo di limitare le attività dei difensori dei diritti umani, dei giornalisti e dei loro oppositori.

Il parlamento dell’Angola ha adottato cinque progetti di legge, che contenevano disposizioni che limitavano la libertà d’espressione e che istituivano un organo regolamentatore dotato di ampi poteri di vigilanza sugli organi d’informazione.
La Costa d’Avorio ha adottato una legislazione che prevedeva una serie di limitazioni al diritto alla libertà d’espressione, anche in relazione a diffamazione, offesa al presidente e diffusione di notizie false.
Un disegno di legge in Nigeria e le bozze di emendamento alla legge sulle Ong del Malawi hanno introdotto una serie di controlli eccessivi, intrusivi e arbitrari sulle attività delle Ong, inclusi i gruppi per i diritti umani.

Libertà dei mezzi d’informazione

In almeno 30 paesi, vale a dire oltre la metà degli stati monitorati, la libertà degli organi d’informazione è stata ridotta e i giornalisti sono incorsi in azioni giudiziarie.

L’uso improprio del sistema giudiziario per ridurre al silenzio il dissenso è stato una prassi abituale in Angola, dove il governo è ricorso alle leggi contro la diffamazione, specialmente per colpire giornalisti e accademici.
In Uganda, la giornalista Gertrude Uwitware è stata arrestata per avere espresso il proprio sostegno a Stella Nyanzi.
In Botswana, i giornalisti hanno continuato ad affrontare vessazioni e intimidazioni per il loro lavoro d’inchiesta; tre sono stati detenuti e minacciati di morte da agenti di sicurezza in borghese, dopo che avevano svolto un’inchiesta sulla costruzione della casa per le vacanze del presidente Ian Khama.
Il Camerun e il Togo hanno bloccato l’accesso a Internet per impedire ai giornalisti di svolgere il loro lavoro e hanno chiuso alcuni organi d’informazione.
Attivisti, tra cui giornalisti e blogger, sono stati detenuti in Etiopia e molti sono stati condannati ai sensi del proclama antiterrorismo, che definiva in modo vago il concetto di atto terroristico.
In Camerun, un tribunale militare ha emesso una condanna a 10 anni di carcere, al termine di un processo iniquo nei confronti del corrispondente di Radio France Internationale Ahmed Abba, per avere esercitato il suo diritto alla libertà d’espressione. È stato rilasciato a dicembre, in seguito a una decisione di una corte d’appello che ha ridotto la sua condanna a 24 mesi.

Repressione politica e violazioni nel contesto delle elezioni

Paura, intimidazione e violenza hanno caratterizzato le elezioni presidenziali in Kenya. La polizia è intervenuta dopo il voto facendo uso eccessivo della forza contro i manifestanti dell’opposizione, causando decine di morti, 33 dei quali sono deceduti sotto i proiettili sparati dagli agenti. Esponenti di spicco del partito di governo hanno ripetutamente minacciato l’indipendenza della magistratura, dopo che la Corte suprema aveva annullato i risultati delle elezioni. Il consiglio per il coordinamento delle Ong ha minacciato d’imporre la chiusura e altre misure punitive nei confronti di alcune organizzazioni attive nel campo dei diritti umani e della governance, dopo che queste avevano criticato il processo elettorale.
Alle elezioni presidenziali di agosto, in Ruanda il presidente in carica Paul Kagame ha ottenuto una vittoria schiacciante, in seguito alle modifiche apportate in precedenza alla costituzione, che gli consentivano di candidarsi per un terzo mandato; le elezioni si sono svolte in un clima di paura, generato da due decenni di attacchi contro l’opposizione politica, gli organi d’informazione indipendenti e i difensori dei diritti umani. Sono stati inoltre presi di mira i potenziali candidati presidenziali, anche attraverso campagne diffamatorie.
Il periodo che ha preceduto le elezioni in Angola è stato segnato da violazioni dei diritti umani, con giornalisti e difensori dei diritti umani ripetutamente minacciati per avere fatto emergere casi di corruzione e abusi. Coloro che protestavano sono incorsi in arresti e uso eccessivo della forza da parte della polizia.
In Burundi è dilagata la repressione politica, con uccisioni illegali, arresti arbitrari e sparizioni forzate in tutto il paese.

CONFLITTO ARMATO E VIOLENZA

Nonostante la diversa natura e intensità dei conflitti che hanno attraversato l’Africa, questi sono stati generalmente caratterizzati da gravi violazioni dei diritti umani e violazioni del diritto internazionale umanitario, compresi atti che si sono configurati come crimini di diritto internazionale.

In un contesto di paralisi degli sforzi condotti a livello regionale per cercare di risolvere l’impasse politica, il conflitto in corso da quattro anni in Sud Sudan ha continuato a provocare intensa sofferenza e perdita di vite umane, con milioni di persone costrette ad abbandonare le loro case. Nella regione dell’Alto Nilo, decine di migliaia di civili sono stati sfollati con la violenza, mentre le forze governative bruciavano, bombardavano e saccheggiavano sistematicamente le loro abitazioni e proseguivano i continui episodi di violenza sessuale. Un accordo per la cessazione delle ostilità è stato siglato a dicembre, in seguito al forum convocato dall’autorità intergovernativa sullo sviluppo, con l’obiettivo di rilanciare il precedente accordo di pace. Tuttavia, poco dopo, in diverse aree del paese sono ripresi i combattimenti.
In Sudan, la situazione umanitaria e della sicurezza negli stati del Darfur, del Nilo Blu e del Kordofan del Sud è rimasta disastrosa, con diffuse violazioni del diritto internazionale uma­nitario e delle norme sui diritti umani.
Nella Repubblica Centrafricana (Central African Republic – Car) sono riprese le ostilità, con violazioni dei diritti umani su vasta scala, abusi e crimini di diritto internazionale. Al di fuori dell’area della capitale, controllata dal governo, i gruppi armati si sono resi responsabili di un’ampia gamma di abusi e ci sono state nuove segnalazioni di sfruttamento e abusi sessuali da parte delle truppe di peacekeeping delle Nazioni Unite.
Nella Drc, la violenza senza precedenti nella regione del Kasaï ha causato migliaia di morti e, al 25 settembre, lo sfollamento interno di un milione di persone; oltre 35.000 si sono riversate nel vicino Angola. Soldati dell’esercito congolese hanno fatto ricorso all’uso eccessivo della forza, uccidendo decine di sospetti membri e simpatizzanti del gruppo armato ribelle legato a Kamuena Nsapu; questo, per contro, ha reclutato bambini soldato e lanciato attacchi contro la popolazione civile e le forze governative. Il gruppo di miliziani Bana Mura, sostenuto dal governo, si è reso responsabile di decine di aggressioni a sfondo etnico, tra cui uccisioni, stupri e distruzione di proprietà civili.
Nel rispondere alle minacce del gruppo armato Boko haram e ai suoi continui attacchi configurabili come crimini di guerra, le forze di sicurezza del Camerun e della Nigeria hanno continuato a compiere gravi e diffuse violazioni dei diritti umani e crimini di diritto internazionale. Queste azioni comprendevano esecuzioni extragiudiziali, sparizioni forzate, arresti arbitrari, detenzioni in incommunicado, tortura e altri maltrattamenti, che in alcuni casi hanno anche causato il decesso in custodia dei detenuti. Durante l’anno, in Camerun, persone accusate di sostenere Boko haram sono state condannate a morte al termine di processi iniqui celebrati da tribunali militari, anche se, a fine anno, nessuna di queste sentenze era stata eseguita. In Nigeria, i militari hanno arbitrariamente arrestato e detenuto in incommunicado in condizioni deplorevoli migliaia di civili, tra donne, uomini e bambini. In Niger, dove il governo ha proclamato uno stato d’emergenza nelle aree occidentali al confine con il Mali e rinnovato lo stato d’emergenza in vigore nella regione di Diffa, è iniziato il processo di oltre 700 sospetti membri di Boko haram.

Violazioni da parte di gruppi armati

Gruppi armati, tra cui al-Shabaab e Boko haram, hanno perpetrato abusi e attacchi contro i civili in paesi come Camerun, Car, Drc, Mali, Niger, Nigeria e Somalia. In alcuni casi, gli attacchi si sono configurati come gravi abusi del diritto internazionale umanitario e delle norme internazionali sui diritti umani.
Nella regione del bacino del lago Ciad, Boko haram ha compiuto crimini di guerra su vasta scala. Gli attacchi lanciati da Boko haram hanno preso di mira la popolazione civile, provocando morti e determinando un crescente flusso di sfollati. Nuovi attacchi condotti in Camerun e Nigeria hanno provocato la morte di centinaia di civili. Anche se il gruppo ha liberato a maggio 82 delle studentesse rapite a Chibok, nel nord-est della Nigeria, mancavano all’appello migliaia di donne, bambine e giovani uomini rapiti, vittime di terrificanti abusi, tra cui stupri. In tutta l’area nordorientale della Nigeria, rimanevano sfollate 1,7 milioni di persone, molte in condizioni di malnutrizione al limite della sopravvivenza.
In Mali, gli attacchi compiuti dai gruppi armati contro civili e peacekeeper si sono diffusi dal nord al centro del paese e, a ottobre, lo stato d’emergenza è stato rinnovato per un altro anno.
Sempre a ottobre, in Somalia, al-Shabaab ha sferrato uno degli attacchi più micidiali contro la popolazione civile della storia recente, uccidendo più di 512 persone nella capitale Mogadiscio.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI

Durante l’anno sono stati documentati casi di tortura e altri maltrattamenti in diversi paesi della regione, tra cui Burkina Faso, Camerun, Eritrea, Etiopia, Mauritania, Nigeria e Sudan.
Le forze di sicurezza del Camerun hanno perpetrato la tortura ai danni di persone che sospettavano, spesso in assenza di prove, di sostenere Boko haram; queste violazioni si sono configurate come crimini di guerra e sono state compiute nell’impunità.
In Etiopia, detenuti accusati di terrorismo hanno ripetutamente denunciato in tribunale di essere stati torturati e altrimenti maltrattati dalla polizia durante gli interrogatori. Benché, in alcuni casi, i giudici abbiano ordinato alla commissione etiope per i diritti umani d’indagare sulle accuse, le indagini non si sono svolte in conformità con gli standard internazionali sui diritti umani.
Per contro, un risultato positivo è stato ottenuto a dicembre, quando in Nigeria è stata promulgata la legge contro la tortura, che ha introdotto nell’ordinamento legislativo il divieto e il reato di tortura.

PERSONE IN MOVIMENTO

Il protrarsi dei conflitti, accompagnato da ricorrenti crisi umanitarie e persistenti violazioni dei diritti umani, ha costretto milioni di persone a fuggire dalle loro case in cerca di protezione. Rifugiati e migranti hanno dovuto affrontare dilaganti abusi e violazioni. I milioni di rifugiati ospitati dai paesi africani non sono stati adeguatamente aiutati dalla comunità internazionale.

Secondo i dati forniti dall’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, a causa del conflitto in corso e della siccità, metà della popolazione della Somalia necessitava di assistenza umanitaria. Durante l’anno, il conflitto e la siccità hanno causato oltre un milione di sfollati interni, che andavano ad aggiungersi a 1,1 milioni di persone sfollate internamente già presenti negli insediamenti informali, in condizioni deplorevoli e prive di sicurezza.
In Kenya, oltre 285.000 rifugiati e richiedenti asilo provenienti dalla Somalia continuavano ad avere bisogno urgente di protezione. A febbraio, una sentenza emessa da un’Alta corte ha bloccato la decisione assunta unilateralmente dal governo keniano di chiudere il campo per rifugiati di Dadaab; l’iniziativa del governo, oltre a costituire una violazione del diritto interazionale, aveva esposto oltre 260.000 rifugiati somali a rischio di essere rimpatriati con la forza. Sebbene il campo di Dadaab sia rimasto aperto, l’esecutivo keniano ha continuato a rifiutarsi di registrare i nuovi arrivi dalla Somalia. Tra dicembre 2014 e novembre 2017, sono stati rimandati in Somalia più di 74.000 rifugiati del campo di Dadaab, in base a un accordo quadro sui rimpatri volontari. I rimpatri sono proseguiti nonostante le reiterate preoccupazioni sollevate in merito alla loro natura “volontaria” e malgrado i timori relativi alla mancanza delle condizioni necessarie per garantire un rientro in sicurezza e dignità in Somalia, a causa del conflitto in corso e della grave siccità.
Centinaia di migliaia di persone provenienti dalla Car hanno cercato riparo negli stati limitrofi o erano sfollate internamente, alloggiate in campi improvvisati.
Le operazioni militari e il conflitto con Boko haram nella regione del bacino del lago Ciad hanno costretto milioni di persone ad abbandonare le loro case. In Nigeria, almeno 1,7 milioni di persone erano sfollate internamente negli stati nordorientali di Borno, Yobe e Adamawa. Secondo l’Unhcr, 5,2 milioni di persone nel nord-est del paese continuavano a necessitare urgentemente di aiuti alimentari e 450.000 bambini al di sotto dei cinque anni versavano in condizioni di grave malnutrizione. In Ciad, più di 408.000 rifugiati provenienti dalla Car, dalla Drc, dalla Nigeria e dal Sudan vivevano in condizioni deplorevoli all’interno di campi per rifugiati.
Il Botswana ha negato ai rifugiati la libertà di movimento, il diritto di lavorare e d’integrarsi a livello locale; i richiedenti asilo hanno affrontato farraginose procedure di determinazione dello status di rifugiati e detenzioni.
Migliaia di eritrei hanno continuato a fuggire dal loro paese, dove la situazione dei diritti umani e l’obbligo di prestare servizio militare a tempo indeterminato creavano notevoli difficoltà a molti cittadini. Queste persone hanno affrontato gravi abusi durante il viaggio o una volta arrivati nei paesi di destinazione; molti che cercavano di raggiungere l’Europa sono stati sottoposti a detenzione arbitraria, rapimento, abusi sessuali e maltrattamento durante il loro viaggio. Ad agosto, il Sudan ha rimpatriato con la forza più di 100 rifugiati rimandandoli in Eritrea, dove erano a rischio di subire gravi violazioni dei diritti umani, in violazione del diritto internazionale.
In Sud Sudan, almeno 340.000 persone sono fuggite dall’escalation dei combattimenti nella regione dell’Equatoria, che tra gennaio e ottobre ha portato ad atrocità e inedia. Nella regione meridionale, principalmente le forze governative, ma anche quelle dell’opposizione, si sono rese responsabili di crimini di diritto internazionale e altre gravi violazioni e abusi contro i civili, compresi crimini di guerra. Dall’inizio del conflitto a dicembre 2013, sono stati sfollati più di 3,9 milioni di persone, pari a circa un terzo della popolazione.
Altri stati hanno fatto poco per aiutare i paesi vicini a ospitare gli oltre due milioni di rifugiati del Sud Sudan. L’Uganda ospitava oltre un milione di rifugiati, in prevalenza minori e ha avuto difficoltà nell’implementare la sua avanzata e ampiamente apprezzata politica sui rifugiati, a causa del cronico sottofinanziamento da parte della comunità internazionale. Di conseguenza, il governo ugandese, l’Unhcr e le Ong hanno faticato a far fronte ai bisogni umanitari essenziali dei rifugiati.

IMPUNITÀ

L’incapacità di assicurare giustizia e riparazione per le vittime, oltre che di accertare le responsabilità dei sospetti perpetratori, è rimasta un nodo cruciale per le violazioni dei diritti umani e gli abusi compiuti nei diversi contesti e paesi della regione.

Nella Car, sono stati compiuti alcuni progressi per rendere operativa la Corte penale speciale, creata per processare i sospetti responsabili di gravi violazioni dei diritti umani e crimini di diritto internazionale, compiuti durante i 14 anni del conflitto armato nel paese. Il procuratore speciale della Corte ha assunto l’incarico a maggio ma, a fine anno, questa non era ancora operativa e l’impunità nel paese rimaneva la norma.
In Sud Sudan, non erano stati ancora istituiti i tre organi giudiziari transizionali previsti dall’accordo di pace del 2015. A luglio, la Commissione dell’Au e il governo hanno concordato una roadmap congiunta per la realizzazione di un tribunale ibrido per il Sud Sudan; sono proseguiti i colloqui in merito ai criteri per la creazione del tribunale, senza tuttavia adottarli formalmente.
In Nigeria, in un contesto di preoccupazione per la sua indipendenza e imparzialità, il consiglio speciale per le indagini, istituito dall’esercito con l’incarico d’indagare sulle gravi e diffuse violazioni dei diritti umani, ha scagionato funzionari militari d’alto grado accusati di crimini di diritto internazionale. Il suo rapporto tuttavia non è mai stato reso pubblico. Ad agosto, il presidente pro tempore ha istituito uno speciale comitato investigativo presidenziale, incaricato d’indagare sulle accuse di violazioni dei diritti umani compiute dai militari; tra settembre e novembre, il comitato si è riunito in audizioni pubbliche ma, a fine anno, non c’era stato alcun risultato. Nel frattempo, le autorità nigeriane hanno processato collettivamente sospetti appartenenti a Boko haram; 50 imputati sono stati condannati a vari periodi di carcerazione in un processo durato quattro giorni.
Nella Drc, l’uccisione di due esperti delle Nazioni Unite e la sparizione del loro interprete congolese e di tre dei loro autisti, avvenute nella provincia centrale del Kasaï a marzo, erano la dimostrazione del bisogno impellente di porre fine alla violenza nella regione. Le indagini svolte dalle autorità congolesi non sono state né trasparenti né credibili. A giugno, il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha deciso d’inviare nella Drc un team di esperti internazionali con l’incarico di supportare le indagini. A luglio, l’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani ha nominato un team di tre esperti che avrebbe relazionato sui risultati ottenuti a giugno 2018.
In Etiopia, la polizia e l’esercito hanno continuato a godere dell’impunità per le violazioni compiute nel 2015 e 2016. Il governo ha respinto le richieste che sollecitavano indagini indipendenti e imparziali sulle violazioni compiute nel contesto delle proteste verificatesi in vari stati regionali.
Le Camere straordinarie africane del Senegal hanno confermato il verdetto di colpevolezza e la condanna all’ergastolo nei confronti dell’ex presidente ciadiano Hissène Habré per crimini di guerra, crimini contro l’umanità e tortura.

Corte penale internazionale

A ottobre, il Burundi è diventato il primo stato parte a recedere dallo Statuto di Roma dell’Icc. Ciononostante, a novembre, la Camera preprocessuale ha annunciato la decisione di autorizzare la procuratrice dell’Icc ad aprire un’indagine sui crimini che rientravano nella giurisdizione della Corte, che sarebbero stati commessi in Burundi o da cittadini burundesi al di fuori del territorio nazionale, tra aprile 2015 e ottobre 2017.
Tuttavia, alcuni sviluppi in Africa hanno segnalato un abbassamento dei toni nella retorica che invocava il ritiro dalla giurisdizione dell’Icc. A gennaio, l’Au ha adottato una decisione che, malgrado il titolo fuorviante, ha definito i piani relativi alla collaborazione con l’Icc e con le altre realtà regionali. Ma ancor più degno di nota è stato l’annuncio di alcuni stati membri, tra cui Senegal, Nigeria, Capo Verde, Malawi, Tanzania, Tunisia, Zambia e Liberia di voler sostenere l’Icc e di respingere qualsiasi prospettiva di un ritiro collettivo dalla sua giurisdizione.
Il nuovo esecutivo del Gambia ha ritirato la decisione di recedere dallo Statuto di Roma, mentre il parlamento del Botswana ha approvato una proposta di legge che ha recepito lo Statuto di Roma nell’ordinamento legislativo interno.
A marzo, il governo del Sudafrica ha annunciato la decisione di revocare la notifica alle Nazioni Unite del suo ritiro dallo Statuto di Roma dell’Icc, dopo che l’Alta corte del Nord Gauteng aveva stabilito che il ritiro del Sudafrica dalla giurisdizione dell’Icc senza la consultazione del parlamento era incostituzionale e dunque nullo. Tuttavia, agli inizi di dicembre, è stata presentata in parlamento una proposta di legge per l’abrogazione del recepimento dello Statuto di Roma nell’ordinamento legislativo interno, un’iniziativa che segnalava l’intenzione del governo sudafricano di portare avanti la sua precedente decisione di recedere dall’Icc.
Nel frattempo, la Camera preprocessuale dell’Icc ha stabilito che il Sudafrica avrebbe dovuto eseguire l’arresto dell’ex presidente sudanese Omar Al Bashir, su cui pendeva un mandato di cattura internazionale, mentre questi si trovava in visita nel paese a giugno 2015. La sentenza ha inoltre confermato che il presidente Al Bashir non godeva dell’immunità dall’arresto e che qualsiasi stato parte allo Statuto di Roma era obbligato ad arrestarlo, nel caso in cui fosse entrato nel suo territorio nazionale, e a consegnarlo all’Icc.
Nel suo rapporto preliminare di dicembre, l’Ufficio del procuratore dell’Icc ha annunciato che stava proseguendo le sue analisi sui potenziali otto capi d’imputazione precedentemente individuati, in relazione a crimini che sarebbero stati compiuti in Nigeria, e che stava raccogliendo prove di nuovi crimini ma non aveva ancora determinato se esistessero gli estremi per l’apertura di un’indagine.

DISCRIMINAZIONE ED EMARGINAZIONE

In vari paesi della regione sono persistiti fenomeni di discriminazione, emarginazione e abusi nei confronti di donne e ragazze, spesso derivanti da tradizioni culturali e istituzionalizzati da leggi inique. Donne e ragazze sono state vittime di stupri e altra violenza sessuale, anche nel contesto dei conflitti e in paesi con un elevato flusso di rifugiati e sfollati interni.

Ragazze in gravidanza sono rimaste escluse dalla frequenza scolastica in paesi come Sierra Leone e Guinea Equatoriale. A giugno, il presidente della Tanzania ha annunciato che avrebbe vietato alle ragazze in gravidanza di riprendere la frequenza delle lezioni nella scuola pubblica, alimentando così lo stigma e la discriminazione nei confronti delle ragazze e delle vittime di violenza sessuale.
Gli episodi di violenza di genere contro donne e ragazze sono stati diffusi in diversi paesi, tra cui Liberia, Malawi, Mozambico, Sudafrica e Swaziland.
In paesi come il Burkina Faso, la mancanza di attrezzature mediche, farmaci e personale sanitario qualificato negli ospedali ha esposto donne incinte e neonati a grave rischio di complicanze derivanti dal parto, infezioni e decessi. I tassi relativi alle mutilazioni genitali femminili hanno continuato a diminuire, anche se tale pratica era ancora diffusa nel paese nonostante fosse vietata dalla legge.
Gli aborti non sicuri hanno continuato a contribuire agli elevati tassi di mortalità materna e danni legati al parto della Liberia, tra i più alti dell’Africa. I servizi abortivi erano in larga parte inaccessibili per le donne vittime di stupro, in quanto onerosi e difficili da raggiungere.
Nonostante il Sudafrica fosse dotato di una legislazione progressista in materia di aborto, donne e ragazze hanno incontrato notevoli difficoltà nell’accedere ai servizi per ottenere un aborto legale, rimanendo esposte a gravi rischi per la salute e per la loro vita a causa di aborti non sicuri. Il governo non ha provveduto a sopperire al rifiuto opposto dagli operatori medici di praticare l’aborto.
In Angola, il governo ha proposto un emendamento al codice penale, che avrebbe depenalizzato l’aborto in determinati e limitati casi ma il parlamento ha respinto la proposta. In seguito alle proteste suscitate nell’opinione pubblica, il voto parlamentare sulla legislazione è stato rinviato a tempo indeterminato.
Persone con albinismo
Superstizioni legate ai presunti poteri magici delle persone affette da albinismo hanno alimentato un’impennata di aggressioni nei loro confronti; in Malawi e Mozambico sono state rapite, uccise e mutilate per le loro parti anatomiche. In Mozambico, un bambino di sette anni è stato ucciso dopo essere stato rapito dalla sua abitazione da un uomo non identificato. Nonostante il caso avesse suscitato l’indignazione dell’opinione pubblica, il governo ha fatto poco per affrontare il fenomeno.

Diritti delle persone lesbiche, gay, bisessuali, transgender e intersessuate

Le persone Lgbti hanno affrontato discriminazioni, azioni giudiziarie, vessazioni e violenza, in paesi come Senegal, Ghana, Malawi e Nigeria. In Ghana, il portavoce del parlamento ha invocato l’approvazione di un emendamento costituzionale per rendere l’omosessualità un reato punibile dalla legge. In Liberia, un uomo arrestato nel 2016 e incriminato per “sodomia volontaria” ai sensi del codice penale, è rimasto in detenzione in attesa di processo. In Nigeria sono stati documentati casi di persone sottoposte ad arresto, umiliazione pubblica, estorsione e discriminazione, a causa del loro orientamento sessuale.
Una sentenza con valore di precedente giudiziale, emessa da un’Alta corte del Botswana, ha stabilito che il rifiuto del governo di cambiare l’indicazione del genere sessuale sul documento d’identità di una donna transgender era irragionevole e costituiva una violazione dei suoi diritti.

DIRITTO ALL’ALLOGGIO E SGOMBERI FORZATI

In un contesto di crescente urbanizzazione, disoccupazione, povertà e disuguaglianza, molti paesi non hanno provveduto ad assicurare il diritto a un alloggio accessibile, economicamente sostenibile e abitabile.
Una frana in un’enorme discarica di rifiuti alla periferia della capitale dell’Etiopia ha causato la morte di 115 persone. La maggioranza delle vittime abitava a fianco del sito e si manteneva riciclando i rifiuti.
Almeno 10 persone, tra cui due bambini, sono rimaste uccise sotto una frana in una discarica di rifiuti in Guinea.
Le autorità dello stato di Lagos, in Nigeria, hanno sgomberato con la forza almeno 5.000 persone delle comunità costiere di Otodo-Gbame e Ilubirin, mentre le forze di sicurezza intervenute per lo sgombero sparavano gas lacrimogeni e proiettili veri. Gli sgomberi forzati sono stati effettuati in violazione di un’ordinanza emessa in precedenza dall’Alta corte dello stato di Lagos, che aveva impedito alle autorità di procedere con la demolizione delle case di queste comunità.
Intanto, una sentenza emessa da un’Alta corte in Nigeria ha stabilito che la programmata demolizione dell’insediamento di Mpape, ad Abuja, era illegale e che pertanto le centinaia di migliaia di abitanti avevano diritto a un risarcimento. La corte ha stabilito che le autorità erano obbligate a sospendere gli sgomberi forzati e dovevano sviluppare politiche per garantire il diritto a un alloggio adeguato.

RESPONSABILITÀ SOCIALE DELLE IMPRESE

Nella Drc, bambini e adulti hanno rischiato la vita e la salute lavorando nelle miniere di cobalto per un dollaro al giorno. In Sudafrica, la Lonmin Plc, un gigante mondiale del platino con sede nel Regno Unito, ha lasciato che la sua forza lavoro abitasse in condizioni squallide a Marikana, nonostante avesse preso impegni legalmente vincolanti oltre 10 anni prima per la costruzione di 5.500 nuove case per i minatori. Nessuno è stato chiamato a rispondere per le uccisioni, avvenute nel 2012, di 34 persone che protestavano contro le dure condizioni di lavoro nelle miniere.
Contemporaneamente, in vari paesi della regione sono emersi segnali di crescenti pressioni, iniziative e richieste da parte dell’opinione pubblica, per una maggiore assunzione di responsabilità da parte delle imprese.
A giugno, è stata intentata una storica causa civile contro la Shell nei Paesi Bassi, in cui la compagnia era accusata di complicità nell’arresto, nella detenzione illegale e nell’esecuzione di nove membri della comunità ogoni, impiccati dal governo militare nigeriano nel 1995. Organizzazioni internazionali hanno chiesto che la Shell fosse indagata per il ruolo svolto in queste gravi violazioni dei diritti umani compiute dalle forze di sicurezza nigeriane nell’Ogoniland, nel corso degli anni Novanta.
Alcuni governi hanno intrapreso iniziative positive. Il governo della Drc si è impegnato a porre fine al lavoro minorile nel settore minerario entro il 2025, in quello che potrebbe rappresentare un notevole passo avanti per sradicare l’impiego di bambini, anche di appena sette anni, nel pericoloso lavoro delle miniere. Il Ghana ha ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite di Minamata sul mercurio, finalizzata a proteggere i lavoratori dall’esposizione alla tossicità del metallo liquido, mediante una riduzione dell’impiego di mercurio nelle piccole attività estrattive e artigianali dell’oro, e a proteggere i minori dall’esposizione a questo metallo.

GUARDANDO AVANTI

Se da un lato il 2017 è stato testimone del protrarsi di sfide, in alcuni casi ancor più gravi, per la situazione dei diritti umani in Africa, ha anche offerto speranze e opportunità di cambiamento. Le innumerevoli persone che in tutta la regione hanno levato la loro voce per chiedere il rispetto dei diritti umani, giustizia e dignità, spesso a rischio della loro stessa vita o libertà sono state una fonte fondamentale di speranza.

Gli organismi regionali africani sono rimasti cruciali per la realizzazione di un cambiamento positivo e hanno avuto molte opportunità. Durante l’anno, l’Au si è fatta carico dell’ambizioso piano di realizzare il suo impegno di “fare tacere le armi” entro il 2020. Ha intrapreso un importante piano di riforma istituzionale, comprendente tra l’altro la mobilizzazione di notevoli risorse necessarie per finanziare le proprie iniziative e i propri interventi a favore della pace e della sicurezza. Questo approccio olistico e l’ambizione dimostrata dall’Au nel voler affrontare le cause alla base dei conflitti hanno offerto concrete opportunità di ottenere un’efficace risposta a livello regionale, per migliorare la protezione dei civili, il rispetto dei diritti umani e la lotta contro una radicata cultura d’impunità.

L’anno ha inoltre segnato il 30° anniversario della creazione della Commissione africana sui diritti umani e dei popoli che, nonostante le molte difficoltà, ha dato un contributo significativo alla promozione e protezione dei diritti umani, anche formulando un impressionante elenco di strumenti e standard.

Nel solo 2017, la Commissione ha adottato almeno 13 di questi strumenti, che hanno riempito di un contenuto specifico gli ampi princìpi enunciati dalla Carta africana dei diritti umani e dei popoli e dal Protocollo opzionale alla Carta africana sui diritti umani e dei popoli sui diritti delle donne in Africa.
La Commissione dovrebbe trarre vantaggio da questi successi e lavorare alla realizzazione di un perfezionamento e rafforzamento dei propri processi e meccanismi; per farlo è necessario sviluppare un unico sistema di consolidate linee guida per la stesura dei rapporti sugli stati e seguire costantemente la procedura dettata dalla Commissione per verificare l’implementazione delle sue decisioni e raccomandazioni agli stati.

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