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Articolo di Matteo de Bellis, ricercatore su asilo e migrazione ad Amnesty International specializzato nella rotta del Mediterraneo centrale, pubblicato su Newsweek il 7 marzo 2019
Farah*, un ragazzo della Somalia, sua moglie e la sua bambina appena nata erano in mare da 12 ore quando la guardia costiera libica ha intercettato il loro gommone. La coppia era fuggita dalla Libia dopo aver sopportato mesi di torture in un hangar dove Farah era stato picchiato e sua moglie stuprata nel tentativo di estorcere denaro ai loro parenti.
Quando ha realizzato che sarebbe stato rimandato in Libia, il 24enne si è sentito mancare. “Sapevo che sarebbe stato meglio morire che tornare indietro, ma ci hanno minacciato con le pistole”.
Farah, sua moglie e la sua bambina hanno passato i sette mesi successivi in due centri di detenzione a Tripoli. “Non c’era cibo né alcun tipo di assistenza per la mia bambina. È morta quando aveva otto mesi. Si chiamava Sagal”.
Le testimonianze raccolte sul campo dal nostro ricercatore Matteo de Bellis.
Questa è solo una delle tante storie strazianti di violenza e di inimmaginabile crudeltà che ho ascoltato il mese scorso a Medenine, una cittadina nel sud della Tunisia, che sta ricevendo un numero basso ma costante di rifugiati e migranti che scappano da una vita d’inferno al di là del confine.
All’inizio di marzo sono emerse nuove testimonianze di persone torturate nel centro di detenzione Triq al Sikka a Tripoli. Secondo quanto riportato, più di 20 rifugiati e migranti, bambini inclusi, sono stati portati in una cella sotterranea e torturati a turno, uno dopo l’altro, per giorni, come punizione per aver protestato contro la loro detenzione arbitraria in condizioni squallide e per la mancanza di soluzioni. In risposta alle proteste, più di 100 detenuti sono stati trasferiti in altri centri di detenzione, incluso Ain Zara, quello in cui è morta Sagal.
Queste storie di violenze sono coerenti con quello che ho sentito in Tunisia. Un altro somalo, Abdi*, ha parlato di estorsioni e pestaggi da parte delle guardie nel centro di detenzione. Come Farah, anche Abdi era stato catturato in mare dalla guardia costiera libica, e rimandato in Libia dove è stato spostato da un centro di detenzione all’altro.
“A volte le guardie bevono e fumano, e poi picchiano le persone. Inoltre, ti chiedono di pagare per essere rilasciato e se non paghi ti picchiano. Vedevi le guardie, la milizia e la polizia, entrare e malmenare quelli che non avevano pagato”.
Le testimonianze raccolte sul campo dal nostro ricercatore Matteo de Bellis.
La maggior parte delle persone detenute nei centri di detenzione libici sono state intercettate in mare dalla guardia costiera libica, che ha goduto di tutto il sostegno dei governi europei in cambio dell’impegno di impedire a rifugiati e migranti di raggiungere le coste europee.
Il denaro dei contribuenti europei è stato usato per migliorare la capacità della Libia di bloccare le persone che cercano di scappare dal paese e detenerle illegalmente, grazie, tra le altre cose, alla donazione di imbarcazioni, all’istituzione di una zona di competenza libica di ricerca e soccorso e alla creazione di centri di coordinamento. Questo è stato fatto senza che fosse porre alcuna condizione, nonostante questa cooperazione porti a gravi violazioni dei diritti umani, come la tortura.
Se gli stati europei vogliono smettere di essere complici nei pestaggi, negli stupri e nello sfruttamento di donne, uomini e bambini, devono richiedere la chiusura di tutti i centri di detenzione in Libia e il rilascio delle circa 5000 persone che vi sono attualmente detenute.
I governi europei che per anni hanno agito con frenesia, sostenendo politiche volte a fermare gli arrivi in Europa a qualsiasi costo, dovrebbero ritrovare il buon senso, quanto meno ora che gli attraversamenti sono molto pochi. Oltre ad azioni per affrontare la crisi dei diritti umani in Libia, che colpisce egualmente sia i libici che gli stranieri, la risposta deve includere un meccanismo veloce e prevedibile per lo sbarco in Europea dei richiedenti asilo e migranti che vengono soccorsi nel Mediterraneo, cosi come un sistema equo per condividere la responsabilità della loro assistenza tra i paesi dell’Unione europea.
Misure di questo tipo potrebbero aiutare a prevenire le scene disastrose che si sono ripetute nell’ultimo anno, di imbarcazioni di soccorso lasciate in mare per settimane, senza nessun paese dell’Unione europea intenzionato ad aprire i porti per accoglierle. Questi episodi non solo aumentano la sofferenza di persone che sono appena scappate a trattamenti orribili, ma scoraggiano anche imbarcazioni commerciali dal soccorrere persone in pericolo e assicurare il loro sbarco in un posto sicuro, che non può essere la Libia.
Emmanuel*, un rifugiato di 28 anni scappato dal conflitto in Camerun, ha raccontato di essere stato alla deriva in un gommone da cui poteva vederne un altro in evidente difficoltà, e la sua totale incredulità quando una nave si è rifiutata di soccorrere anche solo una delle due barche.
“Dalla nave stavano facendo delle telefonate, ma hanno detto: ‘Ci dispiace, non possiamo prendervi, non è colpa nostra, gli ordini sono che i libici verranno a prendervi’. Nel frattempo, potevo vedere gente morire sull’altra barca, dei pezzi che galleggiavano e anche dei corpi. Quando una piccola nave libica è arrivata… tutte le persone sull’altro gommone erano morte”.
In presenza di notizie secondo le quali i rifugiati provenienti da paesi come l’Eritrea stanno accettando di essere rimpatriati, pur di lasciare la Libia, nonostante gli ovvi rischi per le loro vite, l’Europa non può permettersi di ignorare le conseguenze catastrofiche delle sue politiche irresponsabili per arginare la migrazione nel Mediterraneo.
Con la diminuzione delle partenze dalla Libia, ora è il momento di spingere per un cambiamento: per la fine dei centri di detenzione per l’immigrazione in Libia, per un meccanismo equo di sbarco e ricollocazione in Europa e per percorsi legali e sicuri che consentano alle persone di raggiungere la salvezza, senza dover attraversare il mare.
Questo consentirebbe a molti bambini e adulti e di lasciare gli orribili centri in cui sono attualmente detenuti arbitrariamente in Libia. I governi europei che hanno chiuso la via del Mediterraneo, e così intrappolato migliaia di persone in Libia, non possono perdere tempo.
Ci sono decine di altre Sagal, e altri padri e madri, che possiamo contribuire a salvare.
*Alcuni dei nomi riportati sono di fantasia a tutela della privacy delle persone intervistate