“Disperato bisogno di aiuto”: l’appello della moglie di Ahmadreza Djalali all’Italia

6 Giugno 2019

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Vida Merhannia, moglie di Ahmadreza Djalali lo scienziato in prigione in Iran da tre anni e due mesi e da quasi due anni in attesa dell’esecuzione per l’accusa fabbricata di “spionaggio”, accompagnata da una nostra delegazione ha incontrato il presidente della Camera dei Deputati Roberto Fico.

Vida, che vive in Svezia con i due figli nati dalla coppia, ha descritto al presidente Fico le drammatiche condizioni di salute del marito. In carcere Ahmadreza ha perso decine di chili e non riceve cure adeguate. Recentemente, per salvaguardare la propria dignità, si è rifiutato di essere portato in ospedale ammanettato e con la divisa da prigioniero.

All’incontro ha preso parte anche Luca Ragazzoni, collega dell’Università del Piemonte Orientale, che ha sottolineato il fondamentale contributo di Ahmadreza Djalali nel campo della ricerca sulla medicina dei disastri, non solo a livello nazionale ma per l’intera comunità scientifica mondiale.

Al presidente Fico Vida Merhannia ha parlato di un disperato bisogno di aiuto, rivolgendogli un appello affinché le istituzioni italiane possano intraprendere un’azione incisiva ed efficace per salvare la vita del marito.

Il caso di Ahmadreza Djalali

Ahmadreza Djalali, scienziato di origini iraniane ma residente in Svezia, è stato condannato a morte e a pagare 200.000 euro di multa per “corruzione sulla terra” (efsad-e fel-arz) dopo un processo gravemente iniquo davanti alla sezione 15 della Corte Rivoluzionaria di Teheran.

Il verdetto della corte ha affermato che Ahmedreza Djalali ha lavorato come spia per Israele nel 2000. Secondo uno dei suoi avvocati, il tribunale non ha fornito alcuna prova per giustificare tali accuse.

Ahmadreza Djalali, che ha insegnato all’università in Belgio, Italia e Svezia, era in viaggio d’affari in Iran quando è stato arrestato dai funzionari del Ministero dell’Intelligence nell’aprile del 2016.

La sua famiglia non ha avuto informazioni sul luogo di detenzione per dieci giorni dopo il suo arresto. È stato tenuto in una località sconosciuta per una settimana prima di essere trasferito alla sezione 209 della prigione Evin di Teheran, dove è stato detenuto per sette mesi, tre in isolamento. Successivamente è stato spostato nella sezione 7 del carcere di Evin.

Ha affermato che, mentre in isolamento, gli è stato negato l’accesso ad un avvocato ed è stato costretto a fare “confessioni” davanti a una videocamera leggendo dichiarazioni pre-scritte dai suoi interrogatori. Ha detto che è stato sottoposto a pressioni intense con tortura e altri maltrattamenti, incluse minacce di morte, anche verso i figli che vivono in Svezia e la sua anziana madre che vive in Iran, al fine di fargli “confessare” di essere una spia.

Ahmadreza Djalali nega le accuse contro di lui e sostiene che siano state fabbricate dalle autorità. In una lettera dell’agosto del 2017 scritta dall’interno della prigione di Evin, afferma che sono state le autorità iraniane nel 2014 a chiedergli di collaborare con loro per identificare e raccogliere informazioni provenienti dagli Stati dell’Ue. La mia risposta è stata “no” e ho detto loro che sono solo uno scienziato, non una spia”.