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Amnesty International ha sollecitato le autorità egiziane a fermare l’imminente esecuzione di sette uomini condannati a morte al termine di due processi gravemente irregolari. Come previsto e denunciato recentemente dall’organizzazione per i diritti umani, i limiti ai processi d’appello introdotti dagli emendamenti entrati in vigore ad aprile rischiano di dar luogo a un’ondata di condanne ed esecuzioni.
Sei dei sette condannati sono stati vittime di sparizione forzata, nel corso della quale sono stati torturati per ottenere “confessioni” poi usate dal tribunale di Mansoura per giudicarli colpevoli dell’uccisione di un poliziotto e della costituzione di un’organizzazione terroristica.
Si tratta di Bassem el-Khereby, Ahmed Meshaly, Ibrahim Azab, Mahmoud Wahba, Khaled Askar e Abd el-Rahman Atteia, cui il 7 giugno la Corte di cassazione ha confermato la condanna a morte. Quel giorno sono iniziate le due settimane di tempo a disposizione del presidente al-Sisi per ridurre la condanna prima che venga fissata la data d’esecuzione.
Il 15 giugno gli avvocati dei sei condannati a morte hanno chiesto al procuratore generale un nuovo processo. Se il loro appello verrà accolto, il caso sarà riesaminato dai giudici di più alto grado della Corte di cassazione.
Secondo le loro famiglie e gli avvocati, Bassem el-Khereby, Ahmed Meshaly, Ibrahim Azab, Mahmoud Wahba, Khaled Askar e Abd el-Rahman Atteia sono stati arrestati nel marzo 2014 dall’Agenzia per la sicurezza nazionale (Nsa). Per periodi da tre giorni a tre mesi sono stati trattenuti in vari centri di detenzione, tra cui il quartier generale dell’Nsa al Cairo. In questo periodo, privi di contatti col mondo esterno e con gli avvocati, sono stati torturati per estorcergli confessioni riprese in video.
Tre delle sei famiglie hanno riferito ad Amnesty International di aver saputo qualcosa sui loro cari solo quando li hanno visti “confessare” in televisione.
Quando è stato finalmente consentito loro di incontrare i detenuti, questi hanno raccontato di essere stati sodomizzati ripetutamente con un bastone di legno, colpiti con la corrente elettrica sui genitali e su altre parti del corpo, tenuti anche per quattro giorni sospesi in posizioni dolorose, bruciati con sigarette e minacciati che, se non avessero confessato, le loro madri e sorelle sarebbero state stuprate.
Dopo aver ritrattato le “confessioni” asserendo che erano state estorte con la tortura, gli uomini sono stati rimandati nelle mani dell’Nsa e torturati ancora una volta. Di fronte al procuratore, per timore di ulteriori torture, hanno smentito la ritrattazione.
Il settimo caso riguarda Fadl Abdel Mawla, condannato a morte dal tribunale di Alessandria con l’accusa di aver ucciso un copto durante una manifestazione che si era svolta nella stessa città il 15 agosto 2013. La documentazione che attestava la presenza al lavoro di Mawla durante le proteste e gli scontri non è stata presa in considerazione. Anche Mawla ha denunciato di essere stato torturato. La condanna si è basata sulla testimonianza di un uomo che sarebbe stato sottoposto a pressioni affinché incriminasse Mawla.
Anche in questo caso, è possibile che la condanna sia riesaminata da un comitato ristretto della Corte di cassazione.
L’uso della pena di morte è sensibilmente aumentato dopo il 2013, anno in cui c’erano state 109 condanne ma nessuna esecuzione. Nel 2014 le esecuzioni sono state 15, nel 2015 22 e nel 2016 44.
Il numero delle condanne è salito da 509 nel 2014 a 538 nel 2015 per scendere a 237 nel 2016.