Iran: la morte di Raisi non deve privare le vittime del diritto alla giustizia

23 Maggio 2024

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La morte del presidente Ebrahim Raisi non deve privare il popolo iraniano del diritto alla giustizia, alla verità e alla riparazione per la lunga serie di violazioni dei diritti umani commesse sin dagli anni ’80, durante il periodo trascorso ai vertici del potere.

È quanto ha dichiarato Amnesty International dopo i funerali del presidente iraniano, deceduto in un incidente in elicottero nella provincia dell’Azerbaigian orientale.

Nel 1980 Raisi, all’età di 20 anni, venne nominato procuratore generale di Karaj, nella provincia di Alborz, per poi salire rapidamente di grado assumendo vari incarichi giudiziari ed esecutivi di alto livello, fino a diventare presidente nel 2021.

Negli ultimi 44 anni, è stato direttamente coinvolto o ha supervisionato la sparizione forzata e le esecuzioni extragiudiziali di migliaia di dissidenti politici negli anni ’80, oltre all’uccisione illegale, la detenzione arbitraria, la sparizione forzata e la tortura di migliaia di manifestanti nei periodi successivi. Ha inoltre perseguitato con violenza donne e ragazze che sfidavano l’obbligo del velo, tra molte altre gravi violazioni dei diritti umani.

“Raisi doveva essere indagato mentre era ancora in vita per crimini contro l’umanità, quali omicidio, sparizione forzata e tortura. La sua morte non deve privare le vittime e le loro famiglie del diritto alla verità e alla giustizia e a vedere tutti gli altri complici dei suoi crimini chiamati a rispondere delle loro azioni”, ha dichiarato Diana Eltahawy, vicedirettrice di Amnesty International per il Medio Oriente e Africa del nord.

“Da decenni, coloro che sono penalmente responsabili di tali crimini beneficiano dell’impunità sistematica che impera in Iran. La comunità internazionale deve agire ora per garantire meccanismi di responsabilità per le vittime di crimini di diritto internazionale e di altre gravi violazioni dei diritti umani che chiamano in causa Raisi e altri funzionari iraniani”, ha proseguito Eltahawy.

 

I massacri dei prigionieri del 1988

Nel 1988 Raisi fece parte della “commissione della morte” che portò avanti la sparizione forzata e le esecuzioni extragiudiziali di diverse migliaia di dissidenti politici nelle prigioni di Evin a Teheran e Gohardasht, nella provincia di Alborz, tra la fine di luglio e l’inizio di settembre di quell’anno. Da allora, i sopravvissuti e le famiglie delle vittime sono stati crudelmente privati della verità, della giustizia e della riparazione per decenni e hanno subito persecuzioni per aver cercato di ottenere l’accertamento delle responsabilità.

Nel maggio 2018, Raisi difese pubblicamente le uccisioni di massa, descrivendo tali massacri come “una delle conquiste di cui essere orgogliosi del sistema [della repubblica islamica]”. In un rapporto del novembre di quell’anno, Amnesty International chiese che Raisi fosse indagato per crimini contro l’umanità, tra cui sparizione forzata, persecuzione, tortura e altri atti disumani, fra i quali anche la sistematica occultazione della sorte delle vittime e del luogo in cui si trovano i loro corpi.

 

Oppressione mortale delle proteste

Nel corso degli anni Raisi ha ricoperto molteplici posizioni giudiziarie, inclusa quella di capo della Magistratura dal 2019 al 2021. Durante quel periodo la Magistratura iraniana è stata un elemento chiave nelle violazioni dei diritti umani e dei crimini di diritto internazionale, ordinando decine di migliaia di arresti, detenzioni arbitrarie, sparizioni forzate, torture e altri maltrattamenti, processi gravemente iniqui e punizioni che violano il divieto di tortura e altri maltrattamenti, quali frustate, amputazioni e lapidazioni.

Sotto la supervisione di Raisi, la Magistratura ha garantito impunità totale ai funzionari governativi e alle forze di polizia sospettati di aver ucciso illegalmente centinaia di uomini, donne e bambini e aver sottoposto migliaia di manifestanti ad arresti arbitrari di massa e almeno centinaia di essi a sparizioni forzate, torture o altri maltrattamenti durante e dopo le proteste nazionali del novembre 2019.

Come presidente dell’Iran e presidente del Consiglio supremo per la sicurezza nazionale durante la rivolta “Donna Vita Libertà” del settembre-dicembre 2022, Raisi ha elogiato e supervisionato la violenta repressione da parte delle forze di sicurezza, che ha portato all’uccisione illegale di centinaia di manifestanti e semplici passanti e al ferimento di migliaia di altre persone. I manifestanti arrestati hanno subito torture e ad altri maltrattamenti, inclusi stupri e altre forme di violenza sessuale.

 

Il terrificante aumento delle esecuzioni

Dopo l’ascesa alla presidenza, nel 2021, Raisi e gli alti funzionari da lui dipendenti hanno invocato un maggiore uso della pena di morte per una nuova fase della “guerra alla droga”. Da allora, le esecuzioni sono aumentate notevolmente, culminando con la messa a morte di almeno 853 persone nel 2023, con un aumento del 172 per cento rispetto al 2021.

Il terribile picco di esecuzioni è stato dovuto in gran parte al ritorno a una politica antidroga mortale, che nel 2023 ha visto le autorità iraniane portare a termine almeno 481 esecuzioni per reati di droga, con un incremento del 264 per cento rispetto al 2021.

Nel dicembre 2022 il governo ha presentato al Parlamento un disegno di legge sulla base di indicazioni ricevute da Raisi, che, se convertito in legge, porterà a un più ampio utilizzo della pena di morte per reati di droga. L’8 gennaio 2024 la Commissione parlamentare sulla giustizia ha approvato i principi generali del disegno di legge.

Sotto la sorveglianza di Raisi, sia a capo della Magistratura che come presidente, le autorità iraniane hanno messo a morte almeno 2462 persone.

 

Il violento attacco ai diritti delle donne

Nel 2022 Raisi ha chiesto un rafforzamento dell’applicazione delle leggi sull’obbligo del velo, culminato, nel settembre dello stesso anno, con la morte in custodia di Mahsa Zhina Amini, avvenuta giorni dopo essere stata arrestata con violenza dalla polizia morale iraniana, tra denunce di torture e altri maltrattamenti, che hanno portato alle rivolte “Donna Vita Libertà” e alle conseguenti repressioni mortali.

Sin dall’inizio delle rivolte le autorità iraniane, sotto la presidenza di Raisi e dei vari organi esecutivi che operavano sotto di lui, come il ministero dell’Interno, hanno perseguitato donne e ragazze con una violenta campagna di oppressione per far rispettare le leggi degradanti e discriminatorie sull’utilizzo del velo obbligatorio.

A partire dall’aprile 2024 le autorità dell’Iran hanno ulteriormente intensificato la loro violenta costrizione all’utilizzo del velo. Nelle ultime settimane si è assistito a un aumento della presenza delle pattuglie di sicurezza nei luoghi pubblici, che impongono l’obbligo del velo tramite il controllo dei capelli, dei corpi e dei vestiti delle donne.

Sui social media sono emersi video inquietanti che mostrano le forze di sicurezza aggredire fisicamente donne e ragazze in pubblico, arrestandole in maniera violenta e trascinandole nei furgoni della polizia in preda alle urla.

“L’eredità di Raisi deve servire da monito sulla crisi di impunità in corso in Iran, dove coloro che sono ragionevolmente sospettati di crimini di diritto internazionale non solo si sottraggono alle responsabilità, ma vengono ricompensati con elogi e posizioni di alto rango all’interno della macchina repressiva della repubblica islamica, che, senza fondamentali riforme costituzionali, legislative e amministrative, è destinata ad andare avanti”, ha aggiunto Eltahawy.

“Tutti gli stati devono avviare indagini penali, in base al principio della giurisdizione universale, nei confronti dei funzionari iraniani ragionevolmente sospettati di crimini di diritto internazionale, per garantire che i sopravvissuti e le famiglie delle vittime vedano i colpevoli finire a processo e chiamati a rispondere dei loro crimini”, ha concluso Eltahawy.