Iran, respinto il ricorso. Il ricercatore Djalali di nuovo a rischio esecuzione

26 Febbraio 2018

Tempo di lettura stimato: 3'

Approfondimento a cura del Coordinamento tematico sulla pena di morte. Per restare aggiornato iscriviti alla newsletter.


La sezione 33 della Corte suprema iraniana ha di fatto respinto la richiesta di revisione della condanna a morte di Ahmadreza Djalali, il ricercatore specializzato in medicina dell’emergenza, nato in Iran e residente in Svezia, già collaboratore dell’Università del Piemonte Orientale.

Lo ha fatto sapere la sua avvocata, Zeinab Taheri. “Il giudice ha respinto la nostra richiesta in meno di un’ora“, ha spiegato, “depositeremo una nuova domanda alla Corte suprema, chiedendo che il dossier sia letto, vista la delicatezza del caso“.

Djalali fu arrestato nell’aprile 2016, dopo un breve viaggio in Iran, e dichiarato colpevole di aver passato informazioni su due scienziati nucleari iraniani al Mossad, prima che venissero uccisi. Condannato a morte al termine di un processo profondamente irregolare, il ricercatore si è sempre professato estraneo alle accuse.

Nessuna prova è stata presentata per dimostrare che Djalali sia altro rispetto a un accademico che porta avanti in modo pacifico la sua professione“, ha dichiarato Philip Luther, direttore delle ricerche sul Medio Oriente e sull’Africa del Nord di Amnesty International.

Nei giorni scorsi, la Svezia ha conferito la cittadinanza a Djalali, creando imbarazzo nelle autorità iraniane che hanno accusato il paese scandinavo di “interferire negli affari interni della Repubblica islamica“.

Unione Europea, organizzazioni internazionali, università e tanta società civile si è mobilitata in queste settimane per salvare Djalali dal boia. E quasi 74mila persone stanno chiedendo insieme ad Amnesty di liberare il ricercatore iraniano. Ma ne serviranno ancor di più, soprattutto ora dopo il pronunciamento della Corte Suprema che sembra tornare a rendere drammaticamente imminente il rischio di esecuzione.

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I dati sulla pena di morte

In totale 141 paesi hanno abolito la pena di morte nella legge o nella pratica. 57 paesi mantengono in vigore la pena capitale, ma quelli che eseguono condanne a morte sono assai di meno.

Le esecuzioni al febbraio 2018*

*questa lista contiene soltanto i dati sulle esecuzioni di cui Amnesty International è riuscita ad avere notizia certa. In alcuni paesi asiatici e mediorientali il totale potrebbe essere molto più elevato. Dal 2009, Amnesty International ha deciso di non pubblicare la stima delle condanne a morte e delle esecuzioni in Cina, dove questi dati sono classificati come segreto di stato.

Più della metà dei paesi ha abolito la pena di morte di diritto o de facto. Secondo gli ultimi dati di Amnesty International, aggiornati al mese di febbraio 2018:
105 paesi hanno abolito la pena di morte per ogni reato. 8 paesi l’hanno abolita salvo che per reati eccezionali, quali quelli commessi in tempo di guerra. 29 paesi sono abolizionisti de facto poiché non vi si registrano esecuzioni da almeno dieci anni oppure hanno assunto un impegno a livello internazionale a non eseguire condanne a morte. In totale 142 paesi hanno abolito la pena di morte nella legge o nella pratica. 56 paesi mantengono in vigore la pena capitale, ma quelli che eseguono condanne a morte sono assai di meno.

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Altre notizie

Iran – Mahboubeh Mofidi è stata condannata a morte per aver ucciso il marito, probabilmente con l’aiuto del cognato. Allora aveva 16 anni, 13 quando tre anni prima lo sposò. Mofidi è stata messa a morte lo scorso 30 gennaio. Lo stesso giorno di Ali Kazemi, messo a morte per un reato commesso a 15 anni. E ad inizio gennaio, l’esecuzione di Amirhossein Pourjafar, 16 gli anni che aveva all’epoca del crimine per cui è stato condannato. Tre casi in pochi giorni che hanno indignato Human Rights Watch che ha lanciato un appello alle autorità iraniane. Per l’Alto Commissariato per i diritti umani dell’ONU, sarebbero circa 80 i minorenni all’epoca del reato nei bracci della morte in Iran, molti dei quali a rischio di imminente esecuzione. (fonte: Human Rights Watch e ONU)

Thailandia – Denis Cavatassi, l’imprenditore di Tortoreto (Teramo) arrestato in Thailandia nel marzo del 2011 con l’accusa di essere il mandante dell’omicidio del suo socio in affari, Luciano Butti, “sta subendo torture” e “rischia la pena capitale”. “Farnesina e governo facciano pressione sulle autorità thailandesi” affinché il peggio venga evitato. E’ l’appello lanciato in una conferenza stampa organizzata in Senato da Luigi Manconi, presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani, insieme ai fratelli
di Denis, Romina e Adriano Cavatassi. Arrestato dalle autorità thailandesi subito dopo l’omicidio di Butti, insieme al quale gestiva un ristorante, in primo e in secondo grado Cavatassi – che si è sempre professato innocente – è stato condannato alla pena di morte. (fonte: Radio Radicale)

Usa – Ha ricevuto sostegno tanto da Democratici quanto da Repubblicani il progetto di legge, passato con un voto di 26 a 22 nel Senato dello Stato di Washington, che prevede l’abolizione della pena di morte. Il tutto è l’evoluzione naturale di un processo “abolizionista” già in atto da tempo: nel 2014 il governatore Inslee aveva imposto una moratoria sul ricorso alla pena capitale; l’opinione pubblica si è sempre più schierata contro la pena, simbolo ormai di un’amministrazione della giustizia inefficace e discriminatoria. Il progetto ora passa alla Camera dei Rappresentanti. (fonte: deathpenalty.org)

Dal mondo

1 febbraio – John David Battaglia, 62 anni, è stato messo a morte in Texas. L’uomo era stato dichiarato colpevole di aver ucciso nel 2001 le sue due figlie di nove e undici anni. Al processo e fino a poche ore dall’esecuzione Battaglia ha tentato di ottenere invano l’attenuante delle condizioni mentali. Battaglia è la terza persona messa a morte quest’anno in Texas.

20 febbraio – Imran Ali, 24 anni condannato quattro volte alla pena di morte ed una all’ergastolo quale reo confesso di aver violentato e ucciso Zainab Amin, una bambina di sei anni, ha presentato ricorso contro la sentenza presso l’Alta Corte di Lahore. L’uomo sostiene di essere stato giudicato “in fretta e in un processo in cui non sono state applicate tutte le previste formalità legali”. La vicenda ha suscitato una forte commozione in Pakistan e a livello internazionale.

23 febbraio –  Il governatore del Texas Greg Abbott ha commutato, pochi minuti prima dell’esecuzione, la pena di morte di Thomas Bart Whitaker, condannato per essere stato il mandante dello sterminio della sua famiglia nel 2003 al fine di ottenere un’eredità da un milione di dollari. Abbott ha accolto il ricorso del padre Kent, rimasto ferito nella sparatoria ma che era sopravvissuto e che negli anni, non solo aveva perdonato il figlio, ma si era instancabilmente battuto per salvargli la vita. Bart sconterà adesso un ergastolo senza sconti di pena. Prima d’ora in Texas era successo solo due volte dal 1976, quando lo stato aveva ripristinato la pena capitale, che una condanna a morte fosse commutata.

BUONE NOTIZIE

Gambia – Il 18 febbraio 2018, in occasione del 53esimo anniversario dell’indipendenza dalla Gran Bretagna, il presidente Adama Barrow ha annunciato “una moratoria sull’uso della pena di morte, come primo passo verso l’abolizione”. Le ultime esecuzioni sono avvenute sotto il regime dittatoriale di Yahya Jammeh, quando nel 2012 vennero passati per le armi nove soldati.

Benin – Il 21 febbraio 2018 un decreto emesso dal capo di stato, Patrice Talon, ha abolito la pena di morte. L’abolizione è stata annunciata in un comunicato rilasciato al termine della riunione del Consiglio dei ministri e ha avuto l’effetto immediato di commutare tutte le sentenze capitali in ergastolo.

Iran – Il 25 gennaio 2018 la Corte d’appello di Urmia ha annullato la condanna a morte di Saman Naseem, giudicato colpevole di un omicidio commesso a 17 anni. Nel febbraio 2015 gli appelli (quasi 300.000 complessivamente da Amnesty International) avevano consentito la sospensione all’ultimo minuto dell’impiccagione. La condanna a morte è stata sostituita da una pena detentiva di cinque anni.

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