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Aggiornato il 12/06/2020 – A seguito delle critiche e delle richieste di chiarimento ricevute tramite mail e anche attraverso una petizione online, abbiamo aggiornato il testo con la precisazione riportata in fondo all’articolo
di Marco Perolini, ricercatore regionale sull’Europa di Amnesty International
Da quando è scoppiata la pandemia da Covid-19, l’Organizzazione mondiale della sanità ha raccomandato alle persone che tossiscono o starnutiscono di indossare una mascherina. Di conseguenza, le autorità di molti paesi hanno disposto l’obbligatorietà di indossare la mascherina in pubblico. In Francia, ad esempio, bisogna indossare la mascherina sui mezzi di trasporto pubblico.
Gli stati devono proteggere i lavoratori in settori essenziali che rischiano di contrarre il virus sul luogo di lavoro, anche attraverso la fornitura di mascherine e altri dispositivi di protezione individuale. Tuttavia, le attuali raccomandazioni in merito all’utilizzo di mascherine mettono anche a nudo l’assurdità delle argomentazioni che alcuni governi europei hanno utilizzato per vietare di indossare forme di abbigliamento che coprono il viso in luoghi pubblici.
A partire dal 2011, sono state approvate leggi che vietano di coprire il volto in molti paesi europei, tra i quali Belgio, Bulgaria, Danimarca, Francia e Paesi Bassi. Destinatarie delle leggi: le donne musulmane che indossano il niqab (un velo che copre gran parte del volto), che molti hanno anche erroneamente chiamato burqa.
Le discussioni che hanno preceduto l’adozione di quelle normative hanno prospettato la problematicità dell’indossare il niqab. Questo “dibattito” spesso politicamente scottante ha generato leggi discriminatorie e ha visto un’inedita alleanza tra populisti di destra, gruppi del movimento femminista e laici.
Vertici dei governi si sono impegnati in una gara a chi riusciva a dire la cosa più satura di pregiudizio.
Nel mese di agosto del 2019, Boris Johnson, primo ministro britannico, ha paragonato le donne musulmane che indossano un velo che copre gran parte del volto a “cassette delle lettere” e “rapinatori di banca“. Gli ci sono voluti più di tre mesi per scusarsi per le sue dichiarazioni. Nelle tre settimane seguenti al suo intervento, la Ong Tell MAMA ha registrato nel Regno Unito un aumento del 375 per cento di episodi di stampo islamofobo nei confronti di musulmani.
In altri paesi, le donne che indossano un velo che copre tutto il volto sono state multate e sono state oggetto di crimini d’odio a sfondo razzista solo per aver camminato per strada. Nel 2017 un’indagine paneuropea dell’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali ha riscontrato che il 22 per cento delle donne musulmane che hanno partecipato al sondaggio e che indossavano un niqab o un copricapo erano state insultate per strada.
Il sostegno che alcuni tribunali hanno offerto a queste norme è una delusione. In una sentenza sconcertante, la Corte europea dei diritti umani ha stabilito che indossare un velo che copre gran parte del viso fosse contrario alla nozione del “vivere insieme“. Nessuna legge in materia di diritti umani considera l’idea del “vivere insieme” un criterio ammissibile per gli stati per limitare i diritti di libertà di espressione e di religione o credo.
Interpretare il velo che copre tutto il volto come una minaccia alla sicurezza o come un simbolo dell’oppressione delle donne è un atteggiamento intriso di stereotipi discriminatori che sono endemici al rendere “altro” le donne musulmane a causa della propria religione. Il divieto di indossare un velo che copra tutto il volto costituisce anche una limitazione eccessiva dei diritti umani di una minoranza, la cui posizione nella società è troppo spesso letta con discriminazione e razzismo.
Negli ultimi due anni, i governi si sono opposti all’utilizzo di maschere sul volto durante le proteste. A Hong Kong, dove lo scorso anno i movimenti sociali hanno organizzato imponenti manifestazioni contro il governo, le autorità hanno imposto un divieto assoluto di indossare maschere al volto durante le proteste. Ne sono scaturite dure rappresaglie contro i manifestanti. In Francia, la polizia ha arrestato centinaia di persone dopo che era entrato in vigore un divieto simile ad aprile del 2019.
Le autorità hanno inculcato nell’immaginario collettivo lo spettro di orde di dimostranti che indossano abiti neri e maschere al volto e hanno l’abitudine di distruggere banche e negozi. Tuttavia, una maschera è fondamentale per protestare dove sussistono preoccupazioni del tutto legittime sull’uso delle tecnologie di riconoscimento facciale. Proteggere l’ordine pubblico non giustifica un divieto assoluto di maschere al volto in qualsiasi protesta, indipendentemente dalle concrete minacce che costituiscono per l’ordine pubblico. I divieti assoluti rappresentano delle limitazioni eccessive dei diritti alla libertà di riunione pacifica e d’espressione.
Il modo in cui interpretiamo determinate usanze o comportamenti è spesso un costrutto sociale e culturale. Pregiudizio, stereotipi e “rendere altro” spesso contribuiscono alla percezione di determinate pratiche. I governi e ampi settori della società in molti paesi hanno concepito i veli che coprono il volto e, più genericamente, la copertura del volto, come minacce alla sicurezza e/o come una manifestazione di disuguaglianza di genere. Hanno presentato le loro interpretazioni come dogmi.
Tuttavia, si tratta solo di costrutti sociali e culturali e possono, con il tempo, essere soggetti a cambiamenti, come abbiamo già visto con la pandemia da Covid-19, che li sta già demolendo. I governi devono cogliere questa opportunità per abrogare le leggi che vietano di indossare veli che coprono il volto e divieti assoluti di indossare maschere durante le proteste. L’altra opzione è chiedere alle persone di indossare le mascherine per combattere il Covid-19 e, contemporaneamente, multare le donne che indossano veli che coprono il viso o i dimostranti che si coprono il volto. Non dovrebbero sfuggirci l’ironia, l’ipocrisia e la discriminazione che questa situazione comporterebbe. Una mascherina utilizzata per combattere il virus è davvero così diversa da un niqab?
Amnesty International sostiene da sempre la libertà di scelta delle donne, la sostiene quando si parla di abbigliamento, quando si parla di libertà d’espressione, quando si parla di diritti sessuali e riproduttivi.
Amnesty International si oppone alle leggi che obbligano le donne a indossare così come a non indossare determinati capi di abbigliamento. La campagna più recente riguarda l’Iran, dove moltissime donne (e le avvocate che le hanno difese, come Nasrin Sotoudeh) sono state arrestate e condannate perché protestano contro l’obbligo d’indossare il velo in pubblico.
In Europa, Amnesty International ha contestato l’emanazione di provvedimenti che in diversi stati hanno imposto un divieto generalizzato di indossare abiti che coprono il volto: un divieto sproporzionato rispetto a legittime esigenze di sicurezza pubblica (che già prevedono il divieto generale di travisamento in determinati luoghi) e discriminatorio perché riguardante una specifica parte della popolazione già soggetta a stigma e discorsi e crimini d’odio.
Abbiamo sottolineato che impedire a una donna di stare in luoghi pubblici in ragione del modo in cui si veste rischia di confinarla in spazi chiusi, ossia le mura domestiche, col rischio di subire violenza e prevaricazioni.
In paesi come per esempio la Francia o il Belgio, le donne che indossano il niqab sono state spesso fermate dalla polizia e multate, pratiche che rischiano di confinarle a casa. Se le autorità vogliono davvero prendersi cura della sicurezza delle donne, più che controllare come si vestono nei luoghi pubblici dovrebbero verificare quanto siano a rischio di violenza nei luoghi privati.
Tutte le donne, indipendentemente dalla loro etnia o religione, sono infatti esposte ad un elevato rischio di violenza sessuale e di violenza domestica. Un rapporto dell’Agenzia per i Diritti Fondamentali dell’Unione Europea ha confermato che 1 una donna su 10 in Europa ha subito violenza sessuale, 1 una 20 è stata stuprata e 1 su 5 ha subito violenza fisica o sessuale da un partner.
In molti paesi europei e non europei vi è un ampio dibattito, condotto e guidato dalle donne, rispetto alle norme sui codici di abbigliamento: dibattito che tocca i temi della prevaricazione e della libera scelta. Amnesty International segue con interesse questo dibattito ma si concentra sull’operato, sulle leggi e sulle politiche dei governi.
Nell’articolo di Perolini non c’è alcuna intenzione di paragonare un’indispensabile protezione sanitaria ad un precetto religioso.
Si sottolinea come sia facile per uno stato cambiare le leggi con motivazioni legate alla lotta al terrorismo e alla sicurezza nazionale o per sconfiggere una pandemia. Ci si riferisce in modo specifico ad uno degli argomenti usato da governi e legislatori in altri paesi europei per proibire tipi di abbigliamento che coprono il volto: i motivi di sicurezza.
Secondo Amnesty International, questi divieti sono sproporzionati rispetto all’obiettivo di proteggere la sicurezza pubblica. Nel contesto delle misure adottate dalle autorità in molti paesi europei per combattere la pandemia da Covid-19, risulta chiaro che coprirsi il volto di per sé non comporta un rischio generalizzato per la sicurezza pubblica.
Senza pronunciarsi sul significato del niqab, l’articolo sottolinea l’assurdità di continuare a multare le donne che indossano il niqab nel contesto della pandemia.
In ogni caso, Amnesty International ha sempre sottolineato che ogni caso di coercizione fisica o psicologica esercitata sulle donne, inclusi i casi in cui tale coercizione ha l’obiettivo di dettare scelte relative all’abbigliamento e alla libertà di religione, deve essere punita.
Link utili
Il nostro appello per chiedere la liberazione di Yasaman, arrestata per aver osato sfidare l’assurda legge che obbliga le donne a indossare il velo in Iran.
Il nostro appello per chiedere la liberazione di Nasrin Sotoudeh, avvocata iraniana per i diritti umani. Le accuse contro di lei sono la conseguenza del suo pacifico lavoro in favore dei diritti umani, inclusa la sua difesa delle donne che protestano contro l’obbligo di indossare il velo in Iran e la sua pubblica opposizione alla pena di morte.
La nostra posizione in merito al divieto totale d’indossare il velo in Danimarca (2018).
La nostra posizione in merito alla sentenza della Corte di giustizia europea secondo la quale due datori di lavoro non hanno infranto il diritto europeo in materia di non discriminazione quando hanno licenziato due donne dai rispettivi posti di lavoro in Francia e in Belgio (2017).