Ripulirsi la coscienza con un pallone: lo sportwashing degli stati del Golfo

16 Novembre 2021

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L’acquisizione del Newcastle da parte dell’Arabia Saudita, l’accordo con Beckham come testimonial dei mondiali di calcio in Qatar, il Paris Saint-Germain gestito dagli Emirati Arabi Uniti. Questi sono solo alcuni esempi di una pratica sempre più diffusa e complessa in contrasto con i diritti umani: lo sportwashing.

Sportwashing: che cos’è?

Lo sportwashing è una strategia usata da stati o governi che sfruttano lo sport per rendere moderna la propria immagine e far distogliere lo sguardo dalla pessima situazione dei diritti umani nel proprio paese. Può avvenire tramite l’acquisto di squadre sportive, organizzazione di eventi o sponsorizzazione degli stessi.

Tramite queste operazioni di soft power, nel corso del tempo gli stati si sono dimostrati spesso capaci di proiettare all’esterno un’immagine più democratica, aperta e attenta ai diritti umani rispetto alla realtà.

Praticata principalmente dalle monarchie del Golfo persico e anche da stati esterni all’area come l’Azerbaigian, la strategia di sportwashing prende piede a cavallo tra lo scorso e l’attuale decennio.

In quel periodo, sulle maglie di importanti squadre di calcio sono comparsi sponsor, magnati arabi hanno acquisito quote azionarie, diversi stadi hanno assunto denominazioni di aziende dell’area così come team di sport di gruppo come il ciclismo.

Ingerenza aumentata nel corso del tempo: gli stati del Golfo hanno iniziato infatti a ospitare e organizzare eventi sportivi internazionali, come il Qatar, che ospiterà i mondiali di calcio nel 2022.

Sono molti i paesi che organizzano eventi sportivi per ripulire la propria coscienza, come il Bahrein, gli Emirati Arabi Uniti e lo stesso Qatar, ormai tappe fisse dei calendari delle gare di automobilismo e motociclismo.

Perché lo sportwashing funziona così bene?

Due le ragioni principali: da una parte il grande potere economico che solitamente questi stati detengono per l’organizzazione di eventi così importanti; dall’altra l’idea, antica quanto diffusa, che “lo sport non deve mescolarsi con la politica”, come ha sostenuto Bernie Eccleston, imprenditore che reso la Formula 1 la gara che conosciamo oggi. Un’idea che ha origini ben più lontane e sopravvive sin dai tempi della finale di Coppa Davis tra Italia e Cile del 1973.

Lo sportwashing ha poi un pubblico specifico: quello delle persone appassionate e tifose, non necessariamente sensibili e informate sulla questione, a volte persino infastidite dalle “interferenze” nella fruizione di uno spettacolo sportivo.

A questo si aggiunge un giornalismo sportivo spesso miope, concentrato solamente sull’evento, perché parlare dei diritti umani “spetta alla redazione esteri”.

Allo sportwashing ci si può opporre

A tutto questo però c’è modo di opporsi. Le organizzazioni possono fare ricerche, attivismo, adovcacy; gli sportivi e le sportive possono dare un segnale.

Rifiutare di partecipare a eventi sportivi dove i diritti umani non esistono è una scelta poco popolare, ma qualcuno si è distinto per senso critico e di giustizia. 

Lo ha dimostrato il tennista Roger Federer qualche anno fa. Nel 2018, in Arabia Saudita era stata organizzata un’importante partita di tennis a cui erano stati invitati i più grandi giocatori. L’evento, voluto e gestito dal governo saudita, era in quel momento al centro del dibattito per il clamore suscitato dall’omicidio di Jamal Khashoggi, ucciso nel consolato saudita della Turchia.

All’invito, Federer rispose che non avrebbe partecipato, rifiutando un compenso di circa un milione di dollari.

“Mi hanno contattato, sì. Perché ho rifiutato? Perché non voglio giocare. Va bene così. Mi piace giocare. Sono felice di fare altre cose e non voglio giocare lì in questo momento. Quindi, ho deciso in fretta”, ha detto il tennista in un’intervista.

Prima di lui, il famoso tennista John McEnroe aveva fatto una scelta simile. Nel 1980, in pieno apartheid, il Sudafrica volle organizzare una partita tra McEnroe e Björn Borg per sfruttare la loro enorme popolarità del momento. McEnroe però rifiutò di partecipare.

“Quella somma corrisponde almeno a dieci milioni di dollari, ma sono orgoglioso di aver preso quella decisione. Sapevo che era una somma incredibile, ma pensai che se mi offrivano tutti quei soldi c’era una ragione: voleva usarmi per i loro fini propagandistici. All’epoca avevo solo 21 anni, ma questo l’avevo capito, e non volevo essere la pedina di nessuno. Ne vado fiero. Non fu una scelta difficile, e la reputo una delle decisioni migliori di tutta la mia carriera.”

Alcuni esempi di sportwashing 

Arabia Saudita 

Negli anni, sono stati molteplici gli stati che hanno usato lo sport per ricostruire la propria immagine pubblica.

Tra questi spicca l’Arabia Saudita, come dimostra l’ultimo accordo concluso a ottobre 2021. Per un valore di 300 milioni di sterline, un consorzio di investitori sostenuto dal fondo di investimento pubblico dell’Arabia Saudita ha completato le trattative per acquistare la squadra di calcio inglese del Newcastle.

Non si tratta di un semplice acquisto senza doppi fini, ma di una strategia complessa e ben studiata di soft power. Solo nel 2019, oltre alla Supercoppa di serie A, il paese ha ospitato un gran premio automobilistico di Formula E, la rivincita tra Anthony Joshua e Andy Ruiz Jr per il titolo di campione del mondo di pugilato, categoria pesi massimi versioni WBA, IBF, WBO e IBO, la finale tra Fognini e Medvedev della Tennis Cup Diriyah.

L’’interessamento del paese a eventi sportivi e di intrattenimento è iniziato molti anni fa. Nel 2016, il principe Mohammed bin Salam ordinò all’Autorità generale dello sport di aprire un fondo dedicato alle competizioni sportive.

Il fondo serviva per privatizzare le squadre di calcio, promuovere eventi sportivi e aggiungere 40.000 posti di lavoro, nell’ambito del quadro strategico di Vision 2030 per diversificare l’economia saudita.

L’acquisto del Newcastle quindi non è un caso isolato, ma rappresenta l’apice di una strategia ben precisa che vuole far credere alle persone che l’Arabia Saudita sia un paese illuminato e accogliente, in netto contrasto con la realtà dei fatti.

I diritti umani in Arabia Saudita 

L’Arabia Saudita non è, infatti, né un paese illuminato né accogliente, specialmente per quanto riguarda i diritti umani. Questi ultimi in Arabia Saudita, sotto la guida del principe della Corona Mohamed bin Salman, sono stati gravemente compromessi: chi esprime critiche, chi difende i diritti delle donne, chi promuove i diritti umani o perora la causa della minoranza sciita finisce in carcere, spesso a seguito di processi irregolari.

Negli anni, le autorità hanno arbitrariamente arrestato, perseguito e incarcerato i difensori e le difensore dei diritti umani per le loro attività pacifiche di protesta. I tribunali hanno spesso invocato la legge contro i reati informatici per condannare chi criticava il governo, usando come prove tweet o altre espressioni non violente online.

La pandemia ha poi peggiorato la situazione: i lavoratori migranti sono stati ancora più esposti agli abusi e allo sfruttamento e migliaia sono stati arbitrariamente detenuti in condizioni terribili, che hanno causato un numero imprecisato di morti.

Sebbene diminuito, l’uso della pena di morte non si è fermato: nel corso del 2021, i tribunali hanno continuato a imporre condanne a morte e hanno effettuato decine di esecuzioni per un’ampia gamma di reati.

Per maggiori informazioni sulle violazioni dei diritti umani in Arabia Saudita è possibile consultare il rapporto annuale 2020-2021 di Amnesty International.

Qatar

Anche il Qatar ha cercato più volte di ripulire la propria immagine tramite lo sportwashing, a partire dalla scelta di ospitare la Coppa del Mondo nel 2022. Così facendo, il Qatar si è posizionato come luogo strategico che ospiterà il più grande evento sportivo al mondo, attirando turisti e tifosi e accellerando significativamente l’economia del paese.

Inoltre, nel mese di ottobre 2021, David Beckham ha deciso di diventare il testimonial dei prossimi mondiali di calcio 2022 in Qatar. Il suo compito sarà quello di promuovere l’immagine del paese in giro per il mondo, ponendo particolare attenzione al turismo e alla cultura.

“Non sorprende che David Beckham voglia essere coinvolto in un evento calcistico così importante, ma lo esortiamo a conoscere la situazione dei diritti umani profondamente preoccupante in Qatar e ad essere pronto a parlarne”, ha affermato Amnesty International UK commentando la notizia.

I diritti umani in Qatar

Anche la situazione dei diritti umani in Qatar è preoccupante, a partire dalla forte limitazione della libertà di espressione che subiscono attivisti e attiviste, fino ad arrivare alla repressione e criminalizzazione delle persone appartenenti alla comunità LGBTI.

Il mondo del calcio si dimostra poi un mondo particolarmente ingiusto: i lavoratori e le lavoratrici migranti nel paese, infatti, continuano a non essere pagati e le autorità non sono riuscite a indagare su migliaia di morti negli ultimi dieci anni nonostante le prove di legami tra morti premature e condizioni di lavoro insicure e ingiuste.

La FIFA ha un ruolo importante nell’aiutare a guidare il cambiamento in Qatar, in particolare nell’aumentare le violenze, gli abusi e i maltrattamenti sul lavoro associati ai preparativi per la Coppa del Mondo.

Lo sportwashing non salverà i diritti umani 

Alcune persone sostengono che lo sportwashing possa favorire riforme o costituire un’occasione per parlare di diritti umani.

Purtroppo non è così. Iniziative come ospitare i mondiali o acquistare squadre di calcio non servono a nessuna persona se non agli interessi degli stati in questione.

L’idea che si arrivi in Arabia Saudita per giocare una partita di calcio e si possa perorare la causa delle attiviste per i diritti delle donne in carcere o dei dissidenti lasciati a languire in prigione è semplicemente ingenua o colpevole.

Stare al gioco dello sportwashing significa accreditare l’immagine finta e patinata di un paese moderno, aperto e avviato alle riforme.

Hatice Cengiz, ex compagna di Jamal Khashoggi, il giornalista trucidato nell’ottobre del 2018 nel consolato saudita di Istanbul, ha chiesto di non cascarci più. Per il bene di tutte le persone.