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Al culmine di una campagna mediatica che chiede l’esecuzione dei responsabili degli attacchi contro l’esercito e la polizia, il 2 febbraio 2015 183 imputati sono stati condannati a morte nel processo d’appello per l’attacco alla stazione di polizia di Giza dell’agosto 2013, in cui morirono 11 agenti di polizia.
Il processo d’appello non è stato celebrato in un tribunale ma all’interno del Centro di polizia di Tora, presenti e testimoni unicamente agenti di polizia e familiari delle vittime. Non tutti gli imputati hanno potuto assistere al processo e tra quelli cui è stato consentito di presenziare, molti non hanno potuto ascoltare il contenuto dell’udienza né parlare con gli avvocati difensori perché isolati da una pesante vetrata scura. Agli avvocati della difesa non è stato consentito di rivolgere domande ai testimoni dell’accusa.
‘Ormai, emettere condanne a morte in massa nei casi riguardanti l’uccisione di agenti di polizia è diventato quasi la regola, a prescindere dai fatti e senza alcun tentativo di accertare le responsabilità individuali. Queste condanne a morte devono essere annullate e gli imputati devono essere sottoposti a un nuovo processo, in linea con gli standard internazionali sull’equità dei giudizi e senza il ricorso alla pena di morte’ – ha dichiarato Hassiba Hadj Sahraoui, vicedirettrice del programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International.
Finora, 415 persone sono state condannate a morte, in quattro distinti processi per l’uccisione di agenti di polizia. In profondo contrasto, l’ex presidente Hosni Murabak è andato assolto per l’uccisione di centinaia di manifestanti nella rivolta del 2011 e non c’è stato un solo caso in cui le forze di sicurezza siano state chiamate a rispondere per l’uccisione di 1000 manifestanti nell’agosto 2013.