Iran: in memoria di Siamak Pourzand, perseguitato fino e oltre la morte

6 Maggio 2011

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Siamak Pourzand, decano del giornalismo ed ex prigioniero di coscienza iraniano adottato da Amnesty International, si è tolto la vita a Teheran all’età di 80 anni.

Fragile, in cattive condizioni di salute e non più disposto a sopportare ulteriori affronti senza neanche il conforto della famiglia intorno a lui, si è lanciato nel vuoto dal sesto piano di un palazzo. A ucciderlo sono state le ripetute violazioni dei diritti umani, che hanno causato danni cronici alla sua  salute, da parte di un sistema giudiziario in cui il concetto di dignità umana è andato perso.

Prima che un giorno del novembre 2001 la sua vita cambiasse per sempre, Siamak Pourzand aveva diretto un centro culturale a Teheran ed era stato per lunghi anni corrispondente dagli Usa del quotidiano ‘Kayhan’.
Quel giorno venne portato via dall’appartamento di sua sorella, a Teheran. Nel marzo 2002, dopo una ‘confessione’ televisiva e un processo farsa, fu condannato a 11 anni di carcere, confermati in appello nel luglio dello stesso anno. Rilasciato alla fine dell’anno per motivi di salute, venne rimandato nel carcere di Evin nel marzo 2003.

Quell’anno la sua salute peggiorò. A luglio era ormai paralizzato. Come accade sempre in questi casi, le autorità iraniane ritardarono o negarono del tutto le cure mediche necessarie. Il loro obiettivo non dichiarato è di accorciare la vita dei prigionieri.

Nel marzo 2004, Siamak Pourzand ebbe un infarto e ad aprile, grazie a una campagna internazionale, venne temporaneamente rilasciato e ricoverato in un ospedale specializzato. Fu un quell’occasione che un funzionario del carcere di Evin lo chiamò per dirgli di dichiarare in un’intervista che non era mai stato trattato male in prigione.

Lo incontrai in ospedale intorno alla metà dl 2004. Pieno di garze dalla testa ai piedi, sorrideva e sopportava il dolore con grande dignità. Soffriva tantissimo ma voleva parlare del mondo fuori, di quello che accadeva e dei suoi sviluppi. Mentre ero lì, passò un ex detenuto e i due iniziarono a raccontarsi storie di altri ex compagni di cella: ecco come il sistema giudiziario iraniano rende familiari persone perfettamente sconosciute.

In quelle parecchie ore che rimasi con lui, e che non dimenticherò mai, capii che Siamak Pourzand era un uomo con un grande senso della famiglia ma anche con un grande senso della giustizia. È qualcosa che resta vivo nella sua famiglia: Banafsheh, una delle sue figlie, è attivista e commentatrice negli Usa.
Sua moglie, Mehrangiz Kar, era una delle più note avvocatesse per i diritti umani in tutto l’Iran. Nel dicembre 2000, durante una conferenza a Berlino, parlò delle violazioni dei diritti umani nel suo paese e disse che la popolazione iraniana aspettava che la comunità internazionale se ne occupasse. Per quel discorso, fu condannata a quattro anni di carcere.

Un anno dopo le fu concesso, per motivi di salute, di lasciare l’Iran. Non vi fece più ritorno, per evitare l’arresto immediato una volta rientrata in patria. Un’altra figlia, Leily, è un’attivista per i diritti umani. La giustizia è uno dei temi preferiti dei blog e delle ricerche accademiche della più piccola, Azadeh.

A Siamak Pourzand fu proibito di lasciare il paese e non gli venne mai rilasciato un passaporto. Della sua famiglia, solo alla piccola Azadeh è stato concesso di fare un breve viaggio in Iran, cinque anni fa, per incontrare il padre. Invano, chiedemmo che le autorità concedessero garanzie di non arresto per Mehrangiz Kar nel caso in cui fosse rientrata in Iran per incontrare il marito. Le autorità non hanno mai mostrato clemenza nei confronti della famiglia Pourzand.

Anche da morto, Siamak Pourzad non è stato lasciato in pace dalle autorità. La mattina del 5 maggio amici e familiari si sono radunati in piazza Fatemi, di fronte alla Moschea della luce. Senza alcuna ragione, funzionari della sicurezza hanno impedito lo svolgimento della cerimonia.

In una lettera al padre, Azadeh Pourzand ha scritto: ‘Mi avevi promesso di aspettare allo stesso balcone. E poi non ce l’hai fatta più. Non ce l’ho con te, neanche per un secondo. Avevi tutti i diritti di cercare la libertà in questo modo. Sappi solo che il pensiero della tua testa che va in pezzi al contatto col terreno, il tuo sorriso meraviglioso e tutte le cose che mi hai raccontato mi rendono forte e dura a morire ogni secondo che passa’.

In molti modi, gli iraniani di ogni parte dei paese lottano per rimanere forti ogni giorno e incontrano la morte ogni giorno, In questo, Azadeh, non sei sola.  Un sistema giudiziario iniquo, in cui l’arbitrarietà è la sola costante, rende le persone sole. Un sistema giudiziario che di proposito le distrugge e, ritardando o negando le cure mediche, ne accelera la morte.

Ma è la volontà di rimanere forti che ci porta avanti, ora e per sempre. Dobbiamo occuparci di violazioni dei diritti umani ogni giorno ma ogni giorno apprendiamo gli atti di coraggio di altri prigionieri iraniani che ci dicono che la dignità umana e la sete di giustizia rimangono intatti tra tutti gli iraniani.