Olanda: Shell a processo per accuse sul suo operato in Nigeria

12 Febbraio 2019

@Amnesty International

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Olanda: dopo 23 anni la Shell va a processo per accuse gravissime legate al suo operato in Nigeria negli anni Novanta

Si tiene oggi presso il tribunale distrettuale dell’Aja la prima udienza di un processo storico nei confronti di Shell, la compagnia petrolifera accusata di aver istigato una serie di terribili violazioni dei diritti umani commesse negli anni Novanta dal governo militare nigeriano contro la popolazione ogoni.

Nel 2017 Esther Kiobel, Victoria Bera, Blessing Eawo e Charity Levula hanno portato in giudizio Shell di fronte al tribunale olandese per il ruolo svolto nell’arresto illegale, nell’imprigionamento e nell’impiccagione dei loro rispettivi mariti, al termine della brutale repressione nei confronti delle proteste degli ogoni contro il devastante inquinamento causato da Shell nella loro regione.

“Per tutti questi anni, Shell ha cercato di impedire che questo caso non arrivasse in tribunale. Ha impiegato le sue risorse per combattermi anziché per dare giustizia a mio marito”, ha dichiarato Esther Kiobel.

Amnesty International, che sta sostenendo le ricorrenti e il loro team di avvocati, ha documentato in modo indipendente il ruolo di Shell nelle uccisioni, negli stupri e nelle torture di cui si rese responsabile il governo nigeriano durante la repressione delle proteste.

Barinem Kiobel, Baribor Bera, Nordu Eawo e Paul Levula vennero impiccati nel 1995 al termine di un processo sommario. Le loro vedove chiedono ora un risarcimento e scuse pubbliche da parte di Shell. Altri cinque attivisti ogoni, tra cui il loro leader Ken Saro-Wiwa, furono a loro volta impiccati in quella che è passata alla storia come la “vicenda dei nove ogoni”.

“Per la prima volta, in una battaglia per la giustizia che va avanti da oltre 20 anni, Esther Kiobel e le altre ricorrenti hanno la possibilità di raccontare le loro storie di fronte a un tribunale. Queste donne credono che i loro mariti sarebbero oggi ancora vivi se Shell, per i suoi sfacciati interessi, non avesse incoraggiato la sanguinosa repressione delle proteste pur sapendo che avrebbe avuto costi umani”, ha affermato Mark Dummett, ricercatore su Imprese e diritti umani di Amnesty International.

“Nonostante numerose prove a suo carico, Shell è riuscita a evitare la giustizia per anni non rispondendo mai di fronte a un tribunale delle accuse nei suoi confronti. Oggi è una giornata storica di enorme importanza per tutti coloro che sono danneggiati dall’avidità e dalle azioni sconsiderate delle multinazionali”, ha aggiunto Dummett.

Portare a processo una potente multinazionale per i danni causati all’estero è un processo lungo e straziante. Il primo tentativo di chiamare in causa Shell, in un tribunale di New York, da parte di Esther Kiobel risale al 2002 e si è chiuso nel 2013 quando la Corte suprema degli Usa ha concluso che gli Usa non avevano competenza giuridica per esaminare il caso: in altri termini, i tribunali statunitensi non esamineranno mai nel merito le denunce mosse contro Shell.

Le quattro ricorrenti accusano Shell di aver avuto un ruolo nell’arresto illegale e nella detenzione dei loro mariti, nella violazione della loro integrità fisica, del diritto a un processo equo e del diritto alla vita; e nel diritto delle une e degli altri alla vita familiare. Esse chiedono al tribunale di ordinare a Shell di consegnare oltre 100.000 documenti interni di grande rilevanza per il caso. Gli avvocati di Shell hanno finora rifiutato di farlo, anche se la stessa documentazione era stata già messa a disposizione in occasione della denuncia al tribunale di New York.

“È venuto il momento di porre fine a decenni d’impunità per Shell. Il coraggio, la resilienza e la determinazione di queste donne per ripristinare la reputazione dei loro mariti e chiamare Shell a rispondere del suo operato è motivo di ispirazione. Loro sanno di avere il sostegno di tutti gli attivisti di Amnesty International nel mondo”.

Roma, 11 febbraio 2019

Per ulteriori informazioni è possibile consultare il briefing “In The Dock”.

Per ulteriori informazioni qui il caso di Ester Kiobel.

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