Tempo di lettura stimato: 6'
Di Michael Bochenek, direttore del Dipartimento Law and Policy di Amnesty International
Le recenti rivelazioni sulla sorveglianza effettuata dall’Nsa (l’Agenzia per la sicurezza nazionale degli Usa) nei confronti di 35 leader mondiali non ha fatto altro che esacerbare la condanna internazionale sul programma di sorveglianza elettronica di massa.
Oltre a chiedere conto direttamente all’amministrazione Obama, alcuni paesi hanno portato la questione all’interno delle Nazioni Unite. In particolare, Brasile e Germania hanno chiesto una risoluzione in favore della privacy su Internet e hanno sollecitato la comunità internazionale ad agire per tutelare il diritto alla privacy nei confronti di metodi di sorveglianza senza adeguata supervisione.
Un eventuale dibattito alle Nazioni Unite non dovrebbe perdere di vista come questa sorveglianza stia danneggiando i diritti umani fondamentali né limitarsi a proteggere i leader mondiali o le intercettazioni da uno stato all’altro. Invece, dovrebbe approfondire – o quanto meno iniziare a prendere in considerazione – il più ampio impatto di questa massiccia sorveglianza elettronica sulla società nel suo complesso.
Non c’è dubbio che la natura e la dimensione della sorveglianza sulle comunicazioni da parte di Usa, Regno Unito e altri paesi ponga profonde preoccupazioni dal punto di vista dei diritti umani. La prima ovvia, è la mancanza di rispetto per il diritto alla privacy. Quelle misure, inoltre, producono un effetto raggelante sulla libertà d’espressione e d’associazione.
Più in generale, la privacy è un elemento essenziale della libertà e della dignità di una persona. Ha molto a che fare con l’identità, l’integrità, l’intimità, l’autonomia e la comunicazione e reca un enorme beneficio alla società nel suo complesso.
Ogni misura adottata per interferire con la privacy dev’essere sempre proporzionale al perseguimento di un obiettivo legittimo e le motivazioni addotte devono sempre essere sottoposte a una supervisione giudiziaria e a un controllo parlamentare trasparenti, robusti e indipendenti.
Il livello raggiunto dalla sorveglianza telefonica ed elettronica effettuata da Usa, Regno Unito e altri governi senza quel tipo di controlli colpisce la privacy in un modo incredibile.
Invece di cercare di dimostrare – preventivamente e pubblicamente – che le loro misure di sorveglianza erano necessarie e proporzionate, quei governi stanno chiedendo ai loro cittadini e al resto del mondo di credere ciecamente al loro operato.
Anche quando le conversazioni personali non vengono monitorate, la capacità di analizzare dati raccolti in forma aggregata o meno da fonti diverse, può impattare sulla privacy delle persone in modo allarmante, fornendo un quadro molto accurato della loro vita privata, chi frequentano, come passano il tempo libero, in quali condizioni di salute sono, quali opinioni politiche professano e altri dettagli.
È vero che molti di noi accettano di condividere informazioni quando usano i social media, chiedono un prestito o cambiano lavoro. Ma non ci aspettiamo che la banca abbia accesso ai nostri dati storici o che venga a sapere con chi passiamo il tempo. In molti paesi, la legge assai opportunamente impedisce alle banche e ai datori di lavoro di chiedere o usare determinate informazioni: sulle opinioni politiche, sull’iscrizione a un sindacato, sull’origine etnica, sull’orientamento sessuale, sulla positività o meno all’Hiv ecc.
Quando condividiamo informazioni di natura commerciale, abbiamo l’opportunità di leggere le condizioni sulla base delle quali decidiamo di rivelare i nostri dati. Ma quando i governi intraprendono una sorveglianza di massa sulle comunicazioni via Internet, l’unica condizione pare essere quella che la stagione di caccia è aperta e che ogni intrusione nella nostra vita privata è consentita.
Mettiamola in un altro modo: immaginiamo un agente governativo che sieda nel vostro soggiorno, spulciando nei vostri archivi, aprendo e leggendo le mail del giorno e prendendo nota dei siti che avete visitato. Vi sentireste a vostro agio?
E anche se questi governi possono dire che non stanno sottoponendo tutti a questo livello di sorveglianza, è vero che potrebbero sempre farlo in ogni momento. Alcune delle attuali tecniche di sorveglianza consentono agli stati di prendere e conservare per anni i contenuti delle conversazioni individuali.
Sappiamo che i governi abitualmente condividono con gli alleati le informazioni in loro possesso. Che succederebbe se una conversazione fatta ieri con un avvocato di un altro paese venisse condivisa col suo governo, che già stava cercando un modo per impedirgli di difendere le vittime di violazioni dei diritti umani? O magari non oggi, ma tra 10 anni quando quel paese avrà un governo repressivo?
Queste sono minacce serie ai diritti umani, cui si deve rispondere con altrettanta fermezza per impedire ai programmi di sorveglianza di massa di limitare le libertà individuali nel prossimo futuro.
Gli stati devono fermarsi e riflettere a lungo sulle pratiche che hanno adottato ed esaminare con onestà i rischi che stanno assumendo. Devono impegnarsi a raggiungere un equilibrio appropriato tra privacy e sicurezza, che dia il necessario peso alle libertà che sono essenziali alla natura umana.
Leggi l’articolo di Maurizio Molinari, corrispondente de La Stampa, in merito al dibattito sulla libertà d’espressione negli Usa in seguito ai casi di Manning e Snowden sulla rivista IAmnesty!