Rapporto annuale 2017 – 2018

Medio-Oriente e Africa del Nord

Giornalisti e difensori dei diritti umani sono finiti nel mirino della repressione messa in atto dai governi e l’espressione online è stata soggetta a rigidi controlli in vari paesi della regione. In alcuni paesi, gli attivisti della società civile sono riusciti a fermare l’ulteriore rafforzamento delle restrizioni alla libertà d’espressione.

La libertà di religione e di culto è stata attaccata dai gruppi armati e dai governi.

Le battaglie dei movimenti per i diritti delle donne sono riuscite a ottenere la modifica di leggi che in alcuni paesi avevano ulteriormente radicato la discriminazione e la violenza contro le donne. Tuttavia, in tutta la regione le donne hanno continuato ad affrontare sistematiche discriminazioni nella legge e nella prassi e a non essere adeguatamente protette contro la violenza di genere.

In alcuni paesi, le autorità hanno arrestato e perseguito penalmente persone a causa del loro reale o percepito orientamento sessuale e in molti le relazioni omosessuali consenzienti sono state ancora considerate un reato, in solo pochi casi punibile anche con la pena di morte.

In alcuni sono state imposte rigide restrizioni alle organizzazioni sindacali e i lavoratori migranti hanno continuato ad affrontare sfruttamento e abusi. Tuttavia, le riforme introdotte in un paio di paesi hanno garantito ai lavoratori migranti maggiori tutele.

I conflitti armati hanno avuto un impatto devastante sulla popolazione civile tormentata dalla guerra e sono stati caratterizzati da gravi violazioni, compreso l’uso di armi vietate, assedi illegali e attacchi deliberati contro civili e infrastrutture civili.

In molti paesi della regione sono state emesse condanne a morte e condotte centinaia di esecuzioni.

È persistita l’impunità per i crimini compiuti in passato così come per quelli attuali; tuttavia, sono stati compiuti alcuni passi in avanti per garantire l’accertamento della verità e della giustizia per le vittime.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE, ASSOCIAZIONE E RIUNIONE

I governi della regione del Medio Oriente e Africa del Nord hanno imbavagliato la società civile sia online che offline, nell’intento d’impedire o punire la diffusione di notizie riguardanti violazioni dei diritti umani o altre critiche indirizzate contro di loro o i loro alleati, spesso con il pretesto di voler combattere potenziali minacce alla sicurezza nazionale o la corruzione. Hanno inoltre fatto ricorso all’uso eccessivo della forza nel tentativo di reprimere movimenti di protesta che avevano portato la gente nelle strade.

Repressione in Egitto e Arabia Saudita

In alcuni paesi, l’intensificarsi della repressione è stata accompagnata da una tendenza globale che ha visto uomini politici autoritari tentare di guadagnarsi in questo modo il credito della comunità internazionale. Nell’Egitto del presidente Abdel Fattah al-Sisi, le autorità hanno continuato a limitare il lavoro dei difensori dei diritti umani con una determinazione mai riscontrata prima, chiudendo le Ong o congelando i loro beni; hanno inoltre applicato una nuova legge draconiana che ha conferito loro ampi poteri di sciogliere le Ong e fissato a cinque anni di reclusione la pena prevista per la pubblicazione di ricerche senza il permesso del governo. Le autorità egiziane hanno anche condannato 15 giornalisti a pene carcerarie per imputazioni che si riferivano unicamente ai loro articoli, compresa la pubblicazione di quelle che le autorità definivano “informazioni false”; hanno inoltre bloccato più di 400 siti web, compresi quelli di quotidiani indipendenti e organizzazioni per i diritti umani. Nel frattempo, le forze di sicurezza hanno arrestato centinaia di persone sulla base della loro appartenenza, reale o percepita, ai Fratelli musulmani. Per punire i dissidenti politici, le autorità hanno fatto ricorso a prolungati periodi di detenzione cautelare, spesso anche di oltre due anni, confinato i detenuti in isolamento per lunghi periodi o a tempo indeterminato e sottoposto molti di quelli che avevano rilasciato a periodi di libertà vigilata, in cui sono stati costretti a trascorrere anche 12 ore al giorno in un commissariato di polizia, una misura di privazione arbitraria della libertà.
In Arabia Saudita, a giugno, Mohammed bin Salman è stato nominato per il ruolo di principe ereditario, nel quadro di una più ampia riorganizzazione della scena politica. Nei mesi successivi, le autorità hanno intensificato il loro giro di vite sulla libertà d’espressione e a settembre, nell’arco di una sola settimana, hanno arrestato almeno 20 eminenti figure religiose, scrittori, giornalisti, accademici e attivisti. Hanno anche incriminato i difensori dei diritti umani, con accuse relative al loro attivismo pacifico, facendoli processare dalla Corte penale specializzata, un tribunale istituito appositamente per giudicare reati in materia di terrorismo. A fine anno, nonostante l’immagine che il palazzo intendeva dare di un paese divenuto più tollerante, la maggioranza dei difensori dei diritti umani sauditi erano o in prigione o imputati in processi gravemente iniqui.

Attacchi a giornalisti e difensori dei diritti umani

In altre parti della regione, la difesa dei diritti umani e le denunce dei giornalisti, oltre che il dissenso verso le istituzioni, hanno portato all’avvio di azioni penali, a imprigionamenti e, in alcuni casi, a campagne denigratorie orchestrate dal governo o dai suoi sostenitori.
In Iran, le autorità hanno incarcerato decine di persone che avevano espresso pacificamente opinioni critiche, tra cui attivisti per i diritti delle donne e delle minoranze, ambientalisti, sindacalisti, avvocati e altri che cercavano di ottenere verità, giustizia e riparazione per le esecuzioni di massa avvenute nel corso degli anni Ottanta.
In Bahrein, il governo ha arbitrariamente detenuto difensori dei diritti umani e persone che lo avevano criticato e ha sottoposto altri a divieti di viaggio o revocato loro la nazionalità, ha sciolto il quotidiano indipendente al-Wasat e il partito politico d’opposizione Waad, ha mantenuto la messa al bando delle manifestazioni nella capitale Manama ed è ricorso all’uso non necessario ed eccessivo della forza per disperdere le manifestazioni in varie località del paese.
Nel Marocco e Sahara Occidentale, le autorità hanno perseguito e incarcerato molti giornalisti, blogger e attivisti che avevano criticato le autorità o riportato notizie riguardanti violazioni dei diritti umani, corruzione o proteste popolari, come quelle che si sono svolte nella regione settentrionale del Rif, dove le forze di sicurezza hanno effettuato arresti di massa di manifestanti per lo più pacifici, compresi minori, e hanno fatto un uso eccessivo o non necessario della forza.
Le autorità kuwaitiane hanno incarcerato diverse persone critiche nei confronti del governo e attivisti online, applicando normative che criminalizzavano i commenti ritenuti offensivi nei confronti dell’emiro o potenzialmente dannosi alle relazioni con gli stati limitrofi.
Nella regione del Kurdistan iracheno, diversi giornalisti e attivisti online sono stati sottoposti ad arresti arbitrari, minacce di morte e campagne denigratorie, una tendenza che si è intensificata nel periodo che ha preceduto il referendum sull’indipendenza, svoltosi a settembre su richiesta del presidente della regione.
Nello Yemen, il gruppo armato degli huthi ha arbitrariamente arrestato e detenuto persone critiche, giornalisti e difensori dei diritti umani nella capitale Sana’a e nelle altre aree sotto il suo controllo.
Nello stesso periodo, le autorità israeliane hanno impedito l’ingresso in Israele o nei Territori Palestinesi Occupati a chiunque avesse prestato il proprio sostegno o collaborato con organizzazioni che avevano lanciato o appoggiato una dichiarazione che era stata da loro ritenuta un invito a boicottare Israele o le entità israeliane, compresi gli insediamenti dei coloni; hanno inoltre preso di mira Ong palestinesi e israeliane impegnate nella difesa dei diritti umani, mediante vessazioni e campagne finalizzate a screditare il loro lavoro, e hanno schierato forze armate che hanno sparato proiettili di metallo ricoperti di gomma e munizioni vere contro manifestanti palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, uccidendone almeno 20 e ferendone migliaia.

Repressione online

Anche altri governi a parte l’Egitto hanno cercato di aumentare il loro controllo sull’espressione online. Lo stato di Palestina ha adottato a luglio la legge sui reati informatici, che permetteva la detenzione arbitraria di giornalisti, informatori e altre persone che esprimevano online critiche verso le autorità. La legge inoltre prevedeva pene detentive e fino a 25 anni di lavori forzati per chi veniva ritenuto aver disturbato “l’ordine pubblico”, “l’unità nazionale” e “la pace sociale”. Ai sensi della nuova legge sono stati incriminati diversi giornalisti e difensori dei diritti umani palestinesi.
La Giordania ha continuato a bloccare l’accesso a determinati siti web, compresi forum online. L’Oman ha oscurato l’edizione online del quotidiano Mowaten e hanno continuato a farsi sentire le conseguenze dei procedimenti giudiziari contro la testata Azamn e i suoi redattori, dopo che nel 2016 avevano pubblicato due inchieste che accusavano di corruzione il governo e la magistratura. In Iran, le autorità giudiziarie hanno tentato di bloccare la popolare applicazione di messaggistica Telegram, senza tuttavia riuscirci a causa dell’opposizione del governo; altri popolari social network, tra cui Facebook, Twitter e YouTube sono rimasti bloccati.

Crisi politica del Golfo

La crisi politica del Golfo innescatasi a giugno, quando l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti (United Arab Emirates – Uae), il Bahrein e l’Egitto hanno interrotto le relazioni con il Qatar, accusandolo di finanziare e offrire riparo ai terroristi e d’interferire negli affari interni degli stati vicini, ha avuto un impatto che è andato ben oltre la paralisi del Consiglio di cooperazione del Golfo. Il Bahrein, l’Arabia Saudita e gli Uae hanno annunciato che avrebbero trattato eventuali critiche alle misure adottate contro il Qatar o qualsiasi segno di simpatia nei confronti del Qatar, come un reato penale punibile con il carcere.

Reazione della società civile

La società civile, tuttavia, si è impegnata notevolmente per arginare l’ondata di misure che tentavano di limitare la libertà d’espressione. In Tunisia, per esempio, gli attivisti sono riusciti a rallentare l’iter di approvazione di una nuova proposta di legge che potrebbe contribuire a rafforzare l’impunità delle forze di sicurezza, criminalizzando le critiche all’operato della polizia e garantendo agli agenti l’immunità giudiziaria per l’eventuale uso eccessivo o letale della forza. In Palestina, le autorità hanno consentito di emendare la legge sui reati informatici in seguito alle enormi pressioni ricevute dalla società civile.

LIBERTÀ DI RELIGIONE E CULTO

Violazioni da parte di gruppi armati

Gruppi armati attivi in vari paesi della regione hanno preso di mira le minoranze religiose. Il gruppo armato autoproclamatosi Stato islamico (Islamic state – Is) e altri gruppi armati hanno ucciso e ferito decine di civili in tutto il territorio dell’Iraq e della Siria, con attacchi suicidi e altri attentati mortali che hanno preso di mira luoghi di culto sciiti e altri spazi pubblici nei quartieri a maggioranza sciita. Le Nazioni Unite hanno documentato a gennaio che all’incirca 2.000 yazidi, donne e bambini, erano ancora prigionieri dell’Is in Iraq e in Siria. Questi erano stati ridotti in schiavitù e regolarmente sottoposti a stupri, percosse e altre forme di tortura. In Egitto, l’Is ha rivendicato la responsabilità degli attentati dinamitardi compiuti ad aprile contro due chiese, costati la vita ad almeno 44 persone e, a novembre, militanti non identificati hanno fatto esplodere una bomba e aperto il fuoco contro i fedeli in una moschea nel nord del Sinai durante le preghiere del venerdì, uccidendo oltre 300 fedeli musulmani sufi, nell’attacco più sanguinoso compiuto da un gruppo armato in Egitto dal 2011.
Nello Yemen, gli huthi e i loro alleati hanno sottoposto membri della comunità baha’i ad arresti e detenzioni arbitrari.

Restrizioni da parte del governo

In Algeria, le autorità hanno messo in atto un nuovo giro di vite nei confronti del movimento religioso ahmadi; durante l’anno, oltre 280 ahmadi sono stati perseguiti a causa del loro credo e delle loro pratiche religiose.
In altre parti della regione, le restrizioni imposte dai governi seguivano uno schema pressoché identico. In Arabia Saudita, le autorità hanno attuato forme di discriminazione nei confronti dei membri della minoranza musulmana sciita a causa della loro fede, limitando il loro diritto all’espressione religiosa e il loro accesso alla giustizia e restringendo arbitrariamente il loro diritto al lavoro e l’accesso ai servizi forniti dallo stato. Attivisti sciiti hanno continuato ad affrontare arresti, incarcerazioni e in alcuni casi anche condanne a morte al termine di processi iniqui.
In Iran, la libertà di religione e di culto è stata sistematicamente violata, nella legge e nella prassi. I membri della minoranza baha’i sono rimasti nel mirino di attacchi diffusi e sistematici, come arresti arbitrari, lunghi periodi di carcerazione, tortura e altri maltrattamenti, chiusura forzata delle loro attività imprenditoriali, confisca dei beni, divieto di assunzione nella pubblica amministrazione e negazione dell’accesso alle università. Anche i membri di altre minoranze religiose non riconosciute dalla costituzione, come il culto di Yaresan (Ahl-e Haq), sono stati sistematicamente discriminati, anche nell’accesso all’istruzione e all’impiego, e perseguitati per avere praticato la loro fede. Il diritto di cambiare religione o abiurare la propria fede è stato ancora violato. Alcuni cristiani convertiti sono stati condannati a pene carcerarie variabili da 10 a 15 anni.

DIRITTI DELLE DONNE

Le battaglie portate avanti da anni dai movimenti per i diritti delle donne hanno ottenuto alcuni sviluppi positivi durante l’anno.
In Giordania, Libano e Tunisia sono state finalmente emendate leggi che consentivano agli stupratori di evitare di essere perseguiti (o di beneficiare di pene ridotte) se sposavano la loro vittima. Tuttavia, in molti altri paesi questa scappatoia è stata mantenuta. La Giordania ha inoltre cancellato una disposizione che consentiva agli uomini giudicati colpevoli dell’omicidio di una donna loro parente di ricevere una sentenza ridotta, nel caso in cui tale atto fosse stato compiuto in “un accesso d’ira causato da un atto illecito o pericoloso da parte della vittima” ma ne ha mantenuta un’altra che assicurava la clemenza per i “delitti d’onore”, le uccisioni di una parente colta in “atteggiamento adulterino”. In Tunisia, il parlamento ha adottato la legge per l’eliminazione della violenza contro le donne, che ha introdotto una serie di tutele per la protezione delle donne e delle ragazze contro la violenza di genere, e il presidente ha abrogato un decreto che vietava il matrimonio tra una donna tunisina e un uomo non musulmano.
In Qatar, nonostante l’approvazione di una proposta di legge che ha garantito diritti di residenza permanente per i figli di donne qatarine con coniuge di altra nazionalità, le donne continuavano a essere discriminate in quanto non potevano trasmettere la loro nazionalità e cittadinanza ai figli.
In Arabia Saudita, a settembre è stato emanato un decreto regio che avrebbe permesso alle donne di guidare un veicolo a partire da metà 2018, sebbene rimanessero dubbi circa le modalità con cui sarebbe stato concretamente applicato. Ad aprile, un altro decreto regio aveva dato istruzione alle agenzie governative di non negare alle donne l’erogazione di alcuni servizi pubblici anche se non disponevano del consenso di un “tutore” di sesso maschile, a meno che tale consenso non fosse richiesto dal relativo regolamento dell’ente. Questa formulazione tuttavia sembrava in realtà voler mantenere in vigore le disposizioni che richiedevano necessariamente l’approvazione di un “tutore”, in assenza della quale alle donne non era permesso recarsi all’estero, ottenere il rilascio del passaporto o sposarsi.
Nonostante alcuni positivi sviluppi, in questi paesi, come in molti altri della regione, le donne continuavano a dover affrontare una radicata discriminazione nella legge e nella prassi, in particolare in relazione a questioni come matrimonio e divorzio, eredità e custodia dei figli. Le donne non erano adeguatamente protette contro la violenza sessuale e altra violenza di genere, oltre che contro i matrimoni forzati e precoci.

DIRITTI DELLE PERSONE LESBICHE, GAY, BISESSUALI, TRANSGENDER E INTERSESSUATE

Se da un lato le tematiche inerenti all’orientamento sessuale e all’identità di genere erano sempre più presenti nelle agende dei principali movimenti per i diritti umani della regione, i governi hanno continuato a limitare fortemente, nella legge e nella prassi, l’esercizio dei diritti delle persone Lgbti.
In Egitto, in quello che è stato considerato come il più duro giro di vite contro le persone Lgbti da oltre un decennio, le autorità hanno rastrellato e perseguito penalmente persone sulla base del percepito orientamento sessuale dopo che, a settembre, era stata fatta sventolare una bandiera arcobaleno durante un concerto al Cairo del gruppo libanese Mashrou’ Leila, la cui esibizione era stata in precedenza durante l’anno vietata in Giordania. Le forze di sicurezza hanno arrestato almeno 76 persone, sottoponendo almeno cinque uomini a visita anale, una pratica equiparabile a tortura. I tribunali hanno condannato almeno 48 persone a pene detentive variabili da tre mesi a sei anni, per accuse come “indecenza abituale”. A ottobre, alcuni parlamentari hanno presentato una proposta di legge profondamente discriminatoria che criminalizzava espressamente le relazioni omosessuali e qualsiasi iniziativa pubblica finalizzata a promuovere raduni, simboli o bandiere Lgbti.
Altri paesi, come il Marocco e la Tunisia, hanno continuato a effettuare arresti e a imporre pene detentive in applicazione di leggi che consideravano reato le relazioni omosessuali consenzienti. In Tunisia, anche se la polizia ha sottoposto alcuni uomini accusati di questo tipo di relazioni a visita anale forzata, il governo ha accettato una raccomandazione formulata a settembre durante l’Upr delle Nazioni Unite, che sollecitava le autorità a porre fine a questa pratica. In altre parti, come ad esempio in Iran e Arabia Saudita, alcuni comportamenti sessuali tra persone dello stesso sesso consenzienti sono rimasti un reato punibile con la morte.

DIRITTO AL LAVORO

Sindacati

Alcuni governi hanno gravemente limitato i diritti sindacali.
In Egitto, le autorità hanno sottoposto decine di lavoratori e sindacalisti ad arresti, processi davanti a tribunali militari, licenziamenti e a una gamma di misure disciplinari, unicamente per avere esercitato il loro diritto di scioperare e organizzarsi in un sindacato indipendente. A dicembre, il parlamento ha approvato una legge che ha triplicato il numero minimo di membri (da 50 a 150) richiesto ai sindacati indipendenti per poter ottenere un riconoscimento legale.
In Algeria, le autorità hanno continuato a negare la registrazione al sindacato indipendente e intersettoriale Confederazione autonoma generale dei lavoratori algerini (che aveva inoltrato la sua prima domanda nel 2013) e hanno messo al bando il Sindacato autonomo nazionale per l’elettricità e il gas, revocandone il riconoscimento.

Diritti dei lavoratori migranti

In tutta l’area del Golfo e in altri paesi, come Giordania e Libano, i lavoratori migranti, compresi quelli impiegati come lavoratori domestici, nell’edilizia e in altri settori, hanno continuato ad affrontare sfruttamento e abusi. Tuttavia, sono stati registrati alcuni sviluppi positivi. In Qatar, il governo ha approvato due nuove leggi ad agosto: la prima ha istituito un meccanismo di risoluzione delle controversie del lavoro, che potrebbe contribuire a rimuovere alcuni degli ostacoli incontrati dai lavoratori migranti nell’accesso alla giustizia; la seconda ha esteso le tutele legali al settore del lavoro domestico, tra l’altro riconoscendo il diritto a ferie retribuite e stabilendo un limite massimo giornaliero di ore di lavoro. Tuttavia, la legge non tutelava i lavoratori contro il potenziale abuso di una disposizione che consentiva ai lavoratori domestici di lavorare oltre il limite massimo legale, purché fossero “d’accordo”. A ottobre, il governo del Qatar ha annunciato l’intenzione d’introdurre nuove riforme, compreso un salario minimo e un fondo di solidarietà per i lavoratori non pagati, e l’Ilo ha reso noti i dettagli di un progetto di cooperazione tecnica con il Qatar, riguardante la riforma del sistema di lavoro tramite sponsor, noto come kafala, che impedisce ai lavoratori migranti di cambiare impiego o di abbandonare il paese senza il permesso dei loro datori di lavoro.
Negli Uae, è entrata in vigore a settembre una legge che ha stabilito un limite massimo di ore di lavoro, un certo numero di ferie retribuite e il diritto di conservare i propri documenti personali.

DIRITTI ALL’ALLOGGIO, ALL’ACQUA E ALLA SALUTE

Israele e Territori Palestinesi Occupati

L’anno ha segnato il 50° anniversario dall’occupazione dei Territori Palestinesi da parte d’Israele e il 10° del blocco illegale sulla Striscia di Gaza. Le autorità israeliane hanno intensificato l’espansione degli insediamenti dei coloni e delle relative infrastrutture in tutto il territorio della Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, e hanno effettuato numerose demolizioni di proprietà palestinesi, sgomberando con la forza oltre 660 persone. Molte delle demolizioni hanno colpito le comunità beduine e pastorizie, che le autorità avevano in programma di trasferire contro il loro volere. Il blocco degli spazi aerei, marittimi e di terra imposto da Israele sulla Striscia di Gaza ha perpetuato le consolidate restrizioni al transito di persone e merci da e verso l’area e sottoposto di fatto a punizione collettiva la popolazione di circa due milioni abitanti di Gaza. Insieme alla chiusura quasi totale del valico di Rafah da parte dell’Egitto e alle misure punitive imposte dalle autorità della Cisgiordania, il blocco di Gaza da parte d’Israele ha determinato una crisi umanitaria caratterizzata da frequenti tagli nell’erogazione dell’elettricità, ridotta ad appena poche ore al giorno, con conseguenze sulla fornitura di acqua potabile e sui servizi igienici e difficoltà d’accesso ai servizi sanitari.
In altre parti della regione, i rifugiati palestinesi, molti dei quali erano ormai residenti permanenti, sono rimasti soggetti a leggi discriminatorie. In Libano, continuavano a rimanere esclusi dall’esercizio di molte professioni ed era loro negato il diritto di possedere o ereditare proprietà e di accedere all’istruzione pubblica e ai servizi sanitari.

Acqua, gestione dei rifiuti e salute

Gruppi della società civile hanno intentato una serie di cause giudiziarie presso la magistratura libanese, in merito a violazioni dei diritti alla salute e all’acqua potabile, compresi casi riguardanti la vendita di farmaci scaduti negli ospedali pubblici e la cattiva gestione dei rifiuti.
In Tunisia, la carenza d’acqua si è ulteriormente aggravata. Il governo ha ammesso di non disporre di una strategia nazionale per la distribuzione dell’acqua e che pertanto era impossibile garantire un accesso uniforme alla risorsa. I tagli alla fornitura dell’acqua hanno colpito in maniera sproporzionata le regioni più periferiche, provocando proteste a livello locale per tutto l’anno.

CONTROTERRORISMO E SICUREZZA

In diversi paesi della regione, le misure antiterrorismo sono state accompagnate da gravi violazioni dei diritti umani.
In Egitto, dove oltre un centinaio di membri delle forze di sicurezza sono stati uccisi in attacchi compiuti da gruppi armati, prevalentemente nel nord del Sinai, l’agenzia per la sicurezza nazionale ha continuato a sottoporre a sparizione forzata e a esecuzione extragiudiziale persone sospettate di essere legate alla violenza politica. Secondo i dati forniti dal ministero dell’Interno, durante l’anno più di 100 persone sono state uccise a colpi d’arma da fuoco nel contesto di scontri con le forze di sicurezza. Tuttavia, in molti di questi casi, le vittime erano già in custodia dello stato, essendo state sottoposte a sparizione forzata. Tortura e altri maltrattamenti erano la norma nei luoghi di detenzione ufficiale e una pratica sistematica nei centri di detenzione gestiti dall’agenzia per la sicurezza nazionale. Centinaia di persone sono state condannate, in alcuni casi anche a morte, al termine di processi collettivi profondamente iniqui.
In Iraq, agli imputati sospettati di “terrorismo” sono stati regolarmente negati i diritti di disporre del tempo necessario per preparare una difesa in un ambiente adeguato, di non autoincriminarsi o confessare la propria colpevolezza e di confrontarsi in contraddittorio con i testimoni dell’accusa. I tribunali hanno continuato a considerare ammissibili come prove a carico degli imputati “confessioni” ottenute con la tortura. Molti di coloro che erano stati giudicati colpevoli al termine di questi processi iniqui e troppo rapidi sono stati condannati a morte. Anche le forze governative irachene e curde e le milizie hanno messo in atto esecuzioni extragiudiziali di uomini e ragazzi sospettati di essere affiliati all’Is.
In diversi paesi, tra cui Bahrein, Israele e Kuwait, sono stati denunciati casi di tortura in custodia da parte di imputati per reati in materia di sicurezza nazionale. In generale, queste accuse non sono mai state indagate. L’Arabia Saudita ha introdotto una nuova legge antiterrorismo, che consentiva l’imposizione della pena di morte per alcuni reati. In Tunisia, il governo ha continuato a limitare la libertà di movimento tramite provvedimenti arbitrari e a tempo indefinito, che hanno sottoposto centinaia di persone a obbligo di dimora nei loro governatorati di residenza, giustificando queste misure come necessarie per impedire a cittadini tunisini di uscire dal paese per entrare a far parte di gruppi armati.

PENA DI MORTE

Iran, Iraq e Arabia Saudita sono rimasti ai primi posti nel mondo per numero di condanne a morte, effettuando centinaia di esecuzioni, in molti casi comminate al termine di processi iniqui. In Iran, Amnesty International ha potuto ottenere conferma dell’esecuzione di quattro minori di 18 anni all’epoca del reato ma diverse esecuzioni di condannati minorenni sono state rinviate all’ultimo minuto in seguito alla mobilitazione dell’opinione pubblica. Le autorità iraniane hanno continuato a definire “antislamiche” le campagne pacifiche contro la pena di morte e hanno sottoposto a vessazioni e carcerazioni attivisti contro la pena capitale. In Arabia Saudita, i tribunali hanno emesso nuove condanne a morte per reati in materia di droga o altri comportamenti che in base al diritto interna­zionale non dovrebbero comportare l’imposizione della pena capitale, come ad esempio “stregoneria” e “adulterio”. In Iraq, la pena di morte ha continuato a essere applicata come strumento di vendetta, in risposta all’indignazione suscitata nell’opinione pubblica dagli attacchi rivendicati dall’Is.
Bahrein e Kuwait hanno ripreso le esecuzioni a gennaio, le prime rispettivamente dal 2010 e dal 2013; le condanne a morte erano state emesse per il reato di omicidio. Anche Egitto, Giordania, Libia e l’amministrazione de facto di Hamas nella Striscia di Gaza hanno effettuato esecuzioni. A eccezione di Israele e Oman, tutti gli altri paesi della regione hanno proseguito la ormai consolidata prassi di emettere condanne a morte ma di non applicarle.

CONFLITTO ARMATO

Alimentato dal commercio internazionale di armi, il conflitto nella regione ha continuato ad affliggere la vita di milioni di persone, in particolare nello Yemen, in Libia, Siria e Iraq. In ciascuno di questi conflitti, le molteplici parti in campo hanno commesso crimini di guerra e altre gravi violazioni del diritto internazionale, compresi attacchi indiscriminati che hanno provocato morti e feriti tra i civili e attacchi deliberati contro la popolazione e infrastrutture civili. In Siria e nello Yemen, il governo e le sue forze alleate hanno utilizzato armi vietate dal diritto internazionale come munizioni a grappolo e, nel caso della Siria, armi chimiche.

Conflitto nello Yemen

La situazione nello Yemen, il paese più povero della regione del Medio Oriente e Africa del Nord, anche prima dello scoppio del conflitto a marzo 2015, è divenuta la peggiore crisi umanitaria attualmente in corso a livello mondiale, con tre quarti della sua popolazione di 28 milioni di persone che necessitavano di aiuti, secondo i dati raccolti dalle Nazioni Unite. Il paese ha affrontato la più grave epidemia di colera mai registrata in epoca moderna, aggravata dalla mancanza di carburante per le stazioni di pompaggio idrico ed era sull’orlo della peggiore carestia alimentare degli ultimi decenni. Il conflitto ha devastato il sistema idrico, quello scolastico e quello sanitario. La coalizione a guida saudita, intervenuta a sostegno del governo yemenita internazionalmente riconosciuto, ha bloccato la consegna di derrate alimentari, carburante e farmaci. A novembre, ha completamente isolato i porti nel nord del paese per oltre due settimane. I raid aerei della coalizione hanno colpito cortei funebri, scuole, mercati, zone residenziali e imbarcazioni civili. Le forze ribelli huthi, alleate con le forze fedeli all’ex presidente Ali Abdullah Saleh, fino a quando le divisioni al loro interno hanno determinato la sua uccisione a dicembre, hanno bombardato indiscriminatamente aree abitate da civili nella città di Ta’iz e lanciato attacchi indiscriminati di artiglieria pesante ol­tre il confine con l’Arabia Saudita, provocando morti e feriti tra la popolazione civile.

Risposta internazionale allo Stato islamico

Sia in Siria che in Iraq, la coalizione internazionale a guida statunitense ha di nuovo concentrato i suoi sforzi nella battaglia contro l’Is, che si è reso responsabile di gravi abusi. In questo contesto sono morte centinaia di civili. A Mosul, seconda città irachena, l’Is ha sfollato con la forza migliaia di civili, spingendoli verso aree di aperto conflitto nel tentativo di proteggere i propri combattenti. L’Is ha ucciso deliberatamente civili che tentavano di fuggire dai combattimenti, lasciando i loro corpi esposti in aree pubbliche, come monito per le altre persone. Nella battaglia per cacciare l’Is da Mosul ovest, le forze irachene e della coalizione hanno lanciato una serie di attacchi sproporzionati e oltremodo indiscriminati, che hanno avuto effetti devastanti, con centinaia di morti tra i civili. Le forze irachene hanno regolarmente impiegato ordigni esplosivi con effetti devastanti su vaste aree, comprese munizioni radiocomandate di fabbricazione artigianale, che non possono essere puntate con precisione contro obiettivi militari e il cui utilizzo in aree densamente popolate da civili è illegale.
In Siria, l’Is ha perso il controllo del governatorato di Raqqa, al culmine di una campagna militare condotta dalle Forze democratiche siriane, nelle cui file erano schierati curdi siriani e gruppi armati arabi, e dalle forze della coalizione a guida statunitense. L’Is ha impedito agli abitanti di fuggire dalla città e utilizzato i civili come scudi umani, prendendo deliberatamente di mira la popolazione civile e lanciando attacchi indiscriminati, che hanno provocato morti e feriti tra i civili. Anche i raid aerei della coalizione hanno provocato centinaia di vittime civili. Le forze governative siriane, affiancate nelle offensive via terra dai combattenti iraniani e dagli Hezbollah, oltre che dai raid aerei dell’aviazione russa, hanno riconquistato altre zone in precedenza controllate dall’Is e da altri gruppi armati. Nel farlo, hanno causato morti e feriti tra i civili, nel corso dei loro attacchi indiscriminati e di altri attacchi diretti contro la popolazione e obiettivi civili, come abitazioni, ospedali e strutture sanitarie.

Assedi e sfollamento di civili in Siria

Le forze governative siriane hanno mantenuto lunghi assedi su aree abitate prevalentemente da civili, privando circa 400.000 persone dell’assistenza medica e di altri beni e servizi essenziali, oltre che degli aiuti umanitari, mentre erano sottoposte contemporaneamente a ripetuti raid aerei, lanci d’artiglieria pesante e altri attacchi. Anche i gruppi armati d’opposizione si sono resi responsabili dell’assedio di migliaia di civili e hanno lanciato indiscriminatamente razzi e colpi di mortaio sui quartieri controllati dal governo, causando morti e feriti. Migliaia di civili hanno affrontato le gravi conseguenze dello sfollamento forzato seguito agli accordi di “riconciliazione”, raggiunti tra la seconda metà del 2016 e i primi mesi del 2017. Tra il 2011 e il 2017, le persone sfollate internamente al territorio siriano erano 6,5 milioni. Le persone fuggite durante l’anno dalla Siria erano più di mezzo milione, una cifra che ha portato il numero complessivo di rifugiati siriani ad almeno cinque milioni.

Regione del Kurdistan iracheno

Le forze governative hanno risposto al referendum sull’indipendenza della Regione del Kurdistan iracheno lanciando un’offensiva con la quale hanno rapidamente riconquistato la città di Kirkuk, oltre che gran parte del territorio conquistato dalle forze peshmerga curde nei combattimenti contro l’Is. A ottobre, decine di migliaia di civili sono stati costretti ad abbandonare le loro abitazioni, dopo che nella città multietnica di Tuz Khurmatu erano scoppiati feroci scontri tra le forze governative irachene, supportate dalle milizie loro affiliate, e i peshmerga; negli attacchi indiscriminati sono rimasti uccisi almeno 11 civili.

Totale assenza di legalità in Libia

I tre esecutivi rivali e le centinaia di milizie e gruppi armati hanno continuato a contendersi il potere e il controllo sul territorio, sulle lucrative rotte del traffico illegale e su località strategiche da un punto di vista militare. Gruppi armati e milizie hanno lanciato attacchi indiscriminati contro aree densamente popolate, causando la perdita di vite umane tra i civili; hanno ucciso sommariamente combattenti dei gruppi armati rivali che avevano catturato e hanno rapito e detenuto illegalmente centinaia di persone, compresi attivisti politici e dei diritti umani, a causa delle loro opinioni, origini etniche, percepite affiliazioni politiche o presunta ricchezza. Fino a 20.000 rifugiati e migranti erano arbitrariamente trattenuti a tempo indeterminato in strutture di detenzione in condizioni di sovraffollamento e totale mancanza d’igiene, esposti al rischio di tortura, lavoro forzato e uccisioni illegali, per mano delle autorità e delle milizie che gestivano queste strutture. Nel fornire assistenza alla guardia costiera libica e alle strutture di detenzione, gli stati dell’Eu, e in particolare l’Italia, si sono resi complici degli abusi.

IMPUNITÀ

È rimasta motivo di grave preoccupazione l’impunità per le gravi violazioni dei diritti umani.
Le vittime di crimini compiuti nel contesto dei conflitti armati, attuali e recenti, si sono scontrate con una radicata cultura dell’impunità a livello nazionale. In Iraq, le autorità hanno annunciato l’avvio d’indagini in risposta a una serie di accuse di gravi violazioni commesse dalle forze irachene e dalle milizie filogovernative, come tortura, esecuzioni extragiudiziali e sparizioni forzate. Tuttavia, hanno accuratamente evitato di rendere pubblici i risultati di tali indagini. In Libia, il sistema giudiziario era paralizzato dalla sua stessa incapacità di operare, con magistrati che spesso evitavano d’indagare e perseguire i crimini, per la paura di subire rappresaglie. In Siria, il sistema giudiziario era privo d’indipendenza e non ha indagato e perseguito i crimini commessi dalle forze governative. Nello Yemen, la commissione nazionale d’inchiesta sulle presunte violazioni dei diritti umani, istituita dal governo, non ha provveduto a condurre indagini in linea con gli standard internazionali sulle presunte violazioni dei diritti umani compiute da tutte le parti impegnate nel conflitto armato nello Yemen.

Un lento miglioramento

L’unico attuale meccanismo di giustizia transizionale della regione, la commissione verità e dignità della Tunisia, creata per affrontare le violazioni dei diritti umani compiute tra luglio 1995 e dicembre 2013, ha tenuto nel corso dell’anno 11 audizioni pubbliche, nel corso delle quali vittime e perpetratori hanno rilasciato deposizioni riguardanti un’ampia gamma di violazioni, tra cui brogli elettorali, sparizione forzata e tortura. Tuttavia, non sono stati compiuti progressi per trovare un’intesa che permettesse il trasferimento dei fascicoli a camere giudiziarie specializzate e le agenzie di sicurezza hanno continuato a non fornire alla commissione le informazioni che aveva richiesto per le proprie indagini.
A livello internazionale, alcune iniziative di rilievo sono andate avanti ma con lentezza. L’Ufficio della procuratrice dell’Icc ha proseguito le sue indagini preliminari sulle accuse di crimini di diritto internazionale commessi nei Territori Palestinesi Occupati a partire dal 13 giugno 2014, compreso il periodo del conflitto tra Gaza e Israele del 2014. In Libia, ha allargato le sue indagini dai vertici politici e militari, prendendo in considerazione anche il più ampio e sistematico maltrattamento dei migranti.
Altre iniziative hanno avuto aspetti positivi ma sono state screditate o indebolite. A settembre, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato una risoluzione che si proponeva di assicurare l’accertamento delle responsabilità per i crimini di guerra e le violazioni dei diritti umani commessi dall’Is in Iraq ma che non faceva riferimento alla questione altrettanto cruciale dell’accertamento delle responsabilità per i crimini compiuti dalle forze irachene, dalle milizie e dalla coalizione guidata dagli Usa. Il Meccanismo investigativo congiunto delle Nazioni Unite e dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche ha fatto qualche progresso nella determinazione delle responsabilità dell’utilizzo di armi chimiche nel conflitto siriano ma al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite la Russia ha posto il veto al rinnovo del suo mandato.
Due importanti sviluppi hanno fatto sorgere in particolare una speranza di raggiungere nel lungo periodo verità e giustizia per le vittime delle violazioni compiute nei due conflitti apparentemente irrisolvibili. Il primo è stato l’istituzione durante l’anno del Meccanismo internazionale imparziale e indipendente, formalmente istituito dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite a dicembre 2016, con l’incarico di affiancare le indagini e il perseguimento giudiziario dei crimini di diritto internazionale più gravi compiuti in Siria a partire da marzo 2011. Il secondo è stato l’approvazione da parte del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, avvenuta a settembre, di una risoluzione che ha incaricato un team di esperti d’indagare sugli abusi compiuti da tutte le parti in conflitto nello Yemen. Entrambi gli sviluppi hanno fatto seguito a una mobilitazione coordinata delle organizzazioni per i diritti umani.

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