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In Ciad, a causa dell’aumentato uso di leggi repressivo e dell’impiego dei servizi segreti, chi esprime critiche nei confronti del governo è ridotto al silenzio. A denunciarlo il lavoro dei ricercatori di Amnesty International dal titolo “Tra repressione e recessione. Il prezzo crescente del dissenso in Ciad“ che documenta i crescenti rischi cui vanno incontro i difensori dei diritti umani, i movimenti di base, i sindacalisti e i giornalisti a causa delle limitazioni ai diritti alla libertà di espressione, associazione e manifestazione pacifica registrati nel paese centrafricano.
“Invece di riconoscere l’importanza dell’azione, del tutto legittima, degli attivisti che con coraggio sfidano le ingiustizie e svolgono attività pacifiche per migliorare la situazione dei diritti umani, il governo del Ciad è stato particolarmente sollecito nell’adottare leggi e regolamenti per impedire il diritto a manifestare, sorvegliare gli attivisti e prenderli di mira con intimidazioni, minacce e aggressioni“, ha denunciato nella nota ufficiale di presentazione del rapporto Alioune Tine, direttore di Amnesty International per l’Africa occidentale e centrale.
“Le forze di sicurezza e i servizi segreti stanno attuando una brutale repressione che, negli ultimi due anni, ha fatto sì che criticare il governo sia diventato sempre più pericoloso. Ora minacciano di riportare il paese indietro al periodo nero di repressione“, ha aggiunto Tine.
Dall’inizio del 2016, prima delle elezioni presidenziali di aprile, il governo del Ciad ha intensificato gli sforzi per violare i diritti umani.
Le manifestazioni pacifiche sono state sistematicamente impedite.
Solo nel 2016 Amnesty International ha documentato almeno 13 decreti ministeriali per impedire lo svolgimento di proteste pacifiche. Oltre 65 associazioni, tra il 2014 e il 2016, si sono viste negare l’autorizzazione a manifestare.
Movimenti di base e campagne non registrate ufficialmente sono stati dichiarati “illegali” dal ministro per la Pubblica sicurezza e l’immigrazione, e sono stati arrestati leader della società civile come Nadjo Kaina e Bertrand Solloh del movimento “Iyina”.
Protagonista di buona parte delle azioni repressive è l’Agenzia per la sicurezza nazionale (Ans), che spesso opera in contrasto con la stessa legge del Ciad. Nel gennaio 2017 il suo mandato è stato ampliato per consentire ai suoi agenti di prendere di mira e arrestare difensori dei diritti umani per motivi di sicurezza nazionale.
Da allora, l’Ans ha eseguito arresti illegali e trasferito i detenuti in centri non ufficiali, impedendo loro di contattare famiglie e avvocati.
“È chiaro che l’Ans ha poteri illimitati per scagliarsi contro i difensori dei diritti umani. Per ridurre le violazioni dei diritti umani e l’impunità, è necessario che le autorità garantiscano supervisione giudiziaria e introducano una catena di responsabilità all’interno dell’Ans“, ha sottolineato Tine.
Su 45 difensori dei diritti umani intervistati dai nostri ricercatori, solo due hanno riferito di non aver ricevute minacce anonime al telefono e di non essere stati sorvegliati.
“Ricevo chiamate da numeri non identificabili ogni giorno, cinque o sei la mattina presto ma anche di notte. A volte stanno zitti, altre volte dicono frasi come: Prova a parlare e vedrai…“, ha denunciato un avvocato per i diritti umani.
Il ministro della Pubblica sicurezza e dell’immigrazione ha confermato in un incontro con i nostri rappresentati il ricorso alla sorveglianza: “Puoi essere ascoltato e spiato, è il lavoro dei servizi di sicurezza”.
Nel 2016, nell’imminenza delle elezioni, il governo ha bloccato piattaforme come Whatsapp e Facebook. Il blocco è rimasto in vigore per buona parte dell’anno. Dal marzo 2017 risultano bloccati 10 portali critici nei confronti del governo.
Tadjadine Mahamat Babouri, noto come Mahadine, un cyberattivista, è agli arresti dal 30 settembre 2016. In attesa di processo, rischia l’ergastolo per aver postato su Facebook una serie di video sulla gestione governativa dei fondi pubblici. Le accuse sono di mettere a rischio l’ordine costituzionale, minacciare l’integrità territoriale e la sicurezza nazionale e collaborare con un movimento insurrezionalista.
Anche i giornalisti stanno pagando a caro prezzo il semplice svolgimento del loro lavoro. Il 20 giugno 2017 Sylver Bendé Bassandé, direttore dell’emittente comunitaria Al Nada FM di Moundou, è stato condannato a due anni di carcere e a una multa equivalente a 150 euro per complicità in oltraggio al tribunale e minaccia all’autorità giudiziaria.
“Il Ciad è a un bivio. Le autorità devono scegliere se continuare ad attaccare l’opposizione politica e a mettere la museruola al dissenso oppure onorare le promesse fatte dal presidente Idriss Déby al momento del suo insediamento al potere – ha sottolineato Tine -. Chiediamo la riforma dell’Ans, il rilascio immediato e incondizionato di tutti i prigionieri di coscienza e modifiche alle leggi che limitano le riunioni pubbliche, le associazioni e il diritto di sciopero“.