Covid-19 in Italia: il lavoro del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale

11 Giugno 2020

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Intervista a Mauro Palma, Presidente del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale.

Presidente, cosa ha significato questa pandemia e la sua conseguente fase di lockdown per le persone detenute nei luoghi di privazione della libertà (carcere, centri per gli immigrati, le REMS e i reparti dove si effettuano i trattamenti sanitari obbligatori)?

Per alcuni aspetti le conseguenze sono state uniformi per tutte queste strutture, per altri invece possiamo dire molto diversificate. Partiamo dall’elemento comune: nel momento in cui si sono interrotti i collegamenti con l’esterno, a quel senso di chiusura e di ansia che già normalmente si ha in queste strutture, si è aggiunta la paura di essere in un luogo dimenticato dal mondo esterno. Una doppia ansia che ha finito per trasformarsi in angoscia.

Conseguenze diverse si sono poi verificate in base alla capacità di comunicazione con le persone: negli istituti in cui si è realizzata una buona comunicazione sulle misure intraprese per il contenimento della pandemia, la reazione dei detenuti è stata più calma, laddove invece la comunicazione non ha funzionato, la sensazione di essere in trappola è stata molto forte e, infatti, abbiamo visto che in alcune situazioni, come nel carcere di Salerno e il giorno successivo in quello di Modena, ci sono state rivolte che poi si sono estese ad altri istituti penitenziari. Una situazione come non avveniva da decenni, con distruzioni, una consistente evasione a Foggia e soprattutto un numero di morti che non si era mai avuto all’interno di un carcere e su cui è calato troppo presto il silenzio, quasi fossero stati dei “danni collaterali”. Tutta l’attenzione si è concentrata sulle rivolte e su chi le avesse guidate.

La situazione è poi migliorata sulla base dell’utilizzo di strumenti tecnologici, come gli smartphone, che hanno facilitato le comunicazioni con le famiglie. Questa è stata un’esperienza positiva, il detenuto ha potuto rivedere i propri luoghi e i propri parenti e ciò ha calmato moltissimo l’ansia, è servito a dare tranquillità e, finalmente, a far entrare le tecnologie in carcere senza che venissero viste come “oggetti del diavolo“. Tutto deve essere fatto in sicurezza, ma un carcere oggi non può fare a meno della tecnologia, perché altrimenti manderà fuori delle persone che hanno vissuto un tempo immobile, mentre il tempo fuori è andato comunque avanti.

Nei sette Centri di permanenza per i rimpatri (Cpr), che attualmente ospitano 195 persone, si è realizzata una situazione di paradosso. Sono di fatto dei centri per il rimpatrio dove le persone sono private della libertà in attesa di essere rimpatriate, ma nel momento in cui le frontiere sono chiuse per il lockdown qual è il significato di quei luoghi? Cosa significa dare il foglio di via obbligatorio? In questi casi si è posto un problema di legittimità e l’amministrazione ha cercato di far quadrare i numeri lasciando nei centri quelli più distanti dal loro periodo massimo di trattenimento, aspettando di capire se i voli per i rimpatri riprenderanno.

Nelle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) – strutture sanitarie di accoglienza per gli autori di reato affetti da disabilità mentali – la situazione ha funzionato abbastanza bene, qui le persone ospitate sono già di per sé abituate a una realtà molto mediata col mondo esterno e sono strutture più piccole dove c’è una vicinanza maggiore alla persona da parte degli operatori sanitari.

Nelle Residenze sanitarie assistenziali (Rsa) la preoccupazione è alta. Il 24 marzo, il Garante ha lavorato insieme all’Istituto Superiore di Sanità nell’indagine sul contagio da Covid-19 nelle Rsa con l’obiettivo di monitorare la situazione e adottare eventuali strategie di rafforzamento dei programmi e dei principi fondamentali di prevenzione.

C’è un settore in cui i monitoraggi e le visite purtroppo non sono state garantite che è quello delle Residenze assistenziali per disabili (Rsd). Qui l’accesso delle persone esterne, dei familiari, e la capacità di poter toccare gli utenti è elemento comunicativo importante: per queste persone c’è il rischio che la pandemia abbia determinato un periodo mancanza di comunicazione totale con il mondo circostante, sia interno che esterno.

Durante la pandemia, alle persone private della libertà e detenute in questi luoghi è stato garantito l’accesso alle cure mediche (non solo legate al Covid-19) e alla giustizia?

L’accesso alle cure mediche in termini generali, nelle strutture di detenzione in senso stretto, è stato garantito. Non ci sono state situazioni di abbandono. Dato che c’era anche l’interesse a diminuire la densità di questi luoghi (intendo il problema dell’affollamento), questo ha aiutato. Le persone che avevano già delle patologie pregresse e che avrebbero rischiato maggiormente di contrarre il virus, sono state supportate dal personale sanitario. In molte situazioni anche la magistratura di sorveglianza ha contribuito positivamente dando la detenzione domiciliare. Mentre parliamo, il dato relativo alla detenzione domiciliare concessa dal 18 marzo, cioè dalla data del decreto contenente specifiche misure in tale direzione, a oggi riguarda 3.489 persone. Di queste, 1.031 con applicazione proprio della procedura specifica prevista dal decreto e applicazione del braccialetto elettronico. È un dato significativo.

Diversa per molti aspetti la possibilità di comunicazione/informazione medica che invece ne ha risentito. L’impostazione è da sempre fondata su un approccio a mio parere sbagliato: investiamo poco sull’informazione e sulla prevenzione. In generale, nel nostro paese informiamo poco e educhiamo poco le persone a realizzare un rapporto positivo con il proprio corpo, quantunque ristretto perché si è privati della libertà; poca è l’attenzione verso la costruzione di un ben-essere (dove le due parole sono volutamente staccate) e tutta l’attenzione è invece rivolta alla risposta alle patologie che si sono già manifestate. In sintesi, un approccio reattivo e non preventivo; tanto meno formativo. È importante saper rispondere ai casi di malattia, di patologia evidente ma, soprattutto in una situazione pandemica, sono altrettanto importanti – e forse anche più – le questioni di informazione, educazione e prevenzione. Quindi c’è stata questo tipo di carenza, che comunque è endemica di questi sistemi.

Il Garante riceve lettere da tutti i settori. L’angoscia più profonda per le persone nelle carceri e negli altri luoghi di privazione della libertà è quella di non aver avuto notizie in tempi rapidi. Poi ci sono state anche esperienze diverse: luoghi in cui generosamente sono stati forniti smartphone a pazienti e detenuti per continuare a comunicare con la famiglia. Bisogna dire che complessivamente il personale che ha operato in tutte le strutture, dal carcere alle varie residenze, è lodevole per il fatto che pur avendo incontrato difficoltà, per esempio aver operato senza strumenti protettivi personali adeguati, ha sempre garantito il proprio servizio.

In merito alla quarantena sulla nave Moby Zazà, da cui tra il 19 e il 20 maggio un ragazzo di origine tunisina si è gettato dal ponte e ha perso la vita, sappiamo che Lei ha inviato una lettera al Ministero dell’Interno. Cosa può dirci di questa tragica vicenda? Ha ricevuto risposta?

Occorre soffermarsi su una serie di punti importanti in questa vicenda: il primo è che si tratta di una quarantena a bordo di una nave con persone che provengono da una situazione di soccorso in mare e precedentemente da esperienze di detenzione, sofferenze e torture in Libia. Una nave a cui viene anche chiesto di fare la spola per andare a prendere altre persone a Porto Empedocle per poi allontanarsi dal porto. La domanda è: siamo sicuri che ciò corrisponda al ben-essere a cui ci si riferiva precedentemente? Siamo sicuri che, indipendentemente dall’incarico alla Croce Rossa – certamente da cogliere positivamente – che questo significhi aver garantito la piena salvezza alle persone, anche dal punto di vista psicologico? Un’operazione di salvataggio e di conduzione in un “posto sicuro” (place of safety, dice la norma internazionale) non si limita a non lasciare annegare qualcuno, perché è anche garantire a ciascuna persona sicurezza, diritti e supporto psicologico. Sì, sulla nave c’è la sicurezza di non essere travolti dalle onde, ma la sicurezza più generale quella che riguarda l’essere riconosciuto come persona e, in quanto tale, titolare di diritti è invece molto relativa.

Il secondo punto, connesso al precedente, riguarda il fatto che le persone a bordo di quella nave, erano in acque italiane e, quindi, nel ‘territorio’ del nostro paese: devono poter godere di tutti i diritti che la Costituzione prevede. Il tempo della quarantena sulla nave non può essere tempo vuoto: ci si aspetta che sia stato utilizzato anche per dare informazioni, per far comprendere, per esempio, chi possa aver diritto a presentare domanda di asilo e come produrre tale domanda. Insomma, un tempo che riduca gli ulteriori tempi che saranno trascorsi una volta sbarcati nel ‘limbo’ degli hotspot.

Il terzo punto è che, come è avvenuto anche per la “Rubattino“, se una nave dove le persone sono in quarantena prende altri migranti da porre in quarantena, si determini un progressivo allungamento di tale periodo. Quasi una quarantena che ricomincia ogni volta che si raccolgono dal mare nuove persone o che si inviano sulla nave persone appena giunte in modo autonomo. Un’ipotesi questa che non garantisce sicurezza a nessuno.

Quello che ho chiesto in qualità di Garante al Capo del dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del ministero dell’Interno è proprio questo: ci tranquillizza che sia in campo la Croce Rossa, ma si tratta di migranti che fuggono da situazioni di guerra e abusi, per questo il supporto psicologico è fondamentale. Vogliamo sapere se alle persone siano state date tutte le informazioni necessarie, in relazione alla loro condizione, attraverso l’impiego anche di mediatori culturali, e se siano stati messi a conoscenza dei loro diritti.

La risposta è arrivata in 24 ore e questo è stato molto apprezzato.

Nella mia lettera facevo anche riferimento al caso del ragazzo morto suicida, per essersi gettato in mare. Quel suicidio non possiamo non viverlo come un nostro fallimento: di ognuno di noi. Perché credo ci sia una responsabilità complessiva: sociale, culturale e politica e la rapidità con cui si archiviano questi casi nel dibattito pubblico conferma tale responsabilità. Ben poco sappiamo di questo giovane: è un numero, neppure un nome.

Il Capo del dipartimento ha riportato nella sua risposta la semplice cronologia dell’evento: il ragazzo alle 4.20 sarebbe stato visto gettarsi in mare da alcuni connazionali e alle 11 è stato recuperato il cadavere a 5 miglia di distanza. Questa risposta non è soddisfacente. Che tipo di sostegno è stato dato a queste persone a bordo? Quale informazione è stata fornita per spiegare loro il significato di questo peregrinare in mare che si protraeva, dopo le drammatiche esperienze da cui provenivano? Inoltre, nella lettera c’è un riferimento a una donna (delle 9 presenti a bordo) che sarebbe stata “evacuata” dalla nave. Sono sempre molto attento al linguaggio perché è indicativo delle culture soggiacenti, anche quando queste non sono esplicite. Non ci stupiamo dell’utilizzo del termine “evacuate” al posto di “sbarcate” perché in fondo, nell’anonimia che caratterizza queste persone, si perde il significato del loro essere persone in cerca di un approdo per il loro viaggio e per la loro vita. Nella risposta comunque è affermato che l’assistenza sanitaria operata dalla Croce Rossa prevede la presenza di due medici, di infermieri, un operatore sanitario, uno psicologo e quattro mediatori culturali questi aspetti sono senz’altro positivi.

C’è da dire che nei nostri giornali, nei media si pone molta attenzione agli arrivi via mare, sia per la maggiore visibilità di questi arrivi, sia perché conosciamo un po’ di più la drammaticità della loro provenienza per esempio dal territorio libico. Ma ci sono anche arrivi via terra, di persone che provengono da situazioni e percorsi anch’essi molto difficili e da esperienze di migrazione umanamente pesanti. Attualmente al confine nord orientale sono 340 le persone in isolamento fiduciario: il loro cammino via terra, forse meno a rischio mortale di quello di coloro che rischiano l’annegamento, non può essere dimenticato. Anche per queste persone va trovato l’equilibrio necessario tra l’essere un posto sicuro e il prevenire il rischio di contagio che, sia il percorso fatto, sia l’arrivo nel nostro paese duramente provato dalla diffusione del virus, possono determinare.

Soffermiamoci ora sulle carceri. Può fornirci qualche dato aggiornato sul numero dei detenuti oggi in Italia e sul numero di posti effettivi a disposizione? Qual è la situazione?

Il sovraffollamento attuale nei 191 istituti carcerari italiani è inferiore rispetto al periodo pre-pandemia. Al 29 febbraio c’erano circa 61 mila detenuti, ora ce ne sono 52.636 e quindi c’è stata una riduzione significativa. Attualmente ci sono tre regioni al di sotto del 100% dei posti occupati: la Sardegna che ha l’88,20% di presenze rispetto ai posti disponibili, la Sicilia che ha il 96,56% e la Calabria con il 97,33%, le altre sono tutte al di sopra. I posti ufficialmente a disposizione sarebbero 50.400 anche se di questi 4,611 sono attualmente non disponibili e sono aumentati dopo le rivolte di inizio marzo (che hanno causato danni in mote sezioni). Quindi, l’effettivo numero di posti disponibili si ferma intorno a 46.700. Noi abbiamo fatto parecchio ma molto c’è da fare. Sia perché c’è sempre una distanza tra disponibilità e presenze: minore di quella del passato – è vero – ma sempre considerevole. Sia inoltre perché un carcere non può avere la presenza di persone detenute pari al numero di posti disponibili: deve scendere al di sotto. Perché le persone detenute non sono distribuibili linearmente in tutti gli spazi, data la loro diversa classificazione e connotazione soggettiva e soprattutto perché può sempre manifestarsi l’esigenza di liberare degli spazi per un problema insorto. Quest’ultimo aspetto è essenziale nella situazione presente: non sappiamo come ci si ritroverà in autunno relativamente al rischio di contagio e dobbiamo avere spazi sufficienti ad affrontare un’eventuale situazione.

Qual è il numero dei detenuti e del personale degli istituti carcerari contagiato dal Covid-19? E quali sono state le misure intraprese per gestire la pandemia all’interno degli istituti?

Il numero delle persone contagiate all’interno delle carceri è al di sotto dei 300, sui 270 e mai contemporaneamente. Ricevo l’informazione sui contagi quotidianamente e posso così tenere una sorta di registro istituzionale di tutti i casi che si presentano. La situazione ora è certamente migliorata e al 9 giugno il numero di persone presenti in carcere positive al Covid-19 è sceso a 65 (più tre persona ricoverate in ospedale) ed è sceso anche quello delle persone positive tra il personale, attualmente a 54. I tamponi effettuati sono stati 6.830. Ci sono stati quattro morti, sia tra le persone detenute che tra gli operatori. In questi mesi il problema si è presentato maggiormente in alcuni istituti, cioè laddove non si è riusciti a bloccare un focolaio iniziale, perché in un luogo strutturalmente chiuso c’è sempre il rischio che, a partire da un caso, la situazione possa esplodere. Ci sono, infatti, intere regioni senza positivi e poi circa sei carceri dove c’è stato un numero alto e ancora alcune consistenti presenze: a Torino, a Saluzzo, a Lodi, a Milano, a Voghera, a Verona questi sono stati i casi più rilevanti. Questo mi porta a dire che non si può abbassare la guardia. Sono stato d’accordo sulle misure graduali di riapertura dei colloqui con i familiari e mi sembra che ciò stia avvenendo con la dovuta protezione sia della persona ristretta sia di coloro che vanno in visita. Occorre sempre spiegare e far capire cosa sta facendo, perché la comunicazione – come si diceva inizialmente – è sempre veicolo di condivisione di ogni misura, anche di quelle meno semplici da far accettare.

Come è stato svolgere il Suo ruolo di Garante durante questa pandemia, in particolare nella fase del lockdown?

Molto complicato. Occorre tenere presente l’ampiezza del mandato (tutte le forme di limitazione della libertà che monitora il Garante).

Tutti i luoghi sono stati tenuti sotto controllo e le attività sono continuate, seppure in modalità diversa – tranne ovviamente il monitoraggio dei voli di rimpatrio, essendo questi bloccati. Gran parte delle persone che lavorano in questo ufficio hanno lavorato da remoto, ma io e altri colleghi siamo venuti qui tutti i giorni dalla mattina alla sera. Anche per poter accedere ai dati sensibili e alle informazioni che sono nel computer dell’ufficio. E’ stato importante introdurre il bollettino quotidiano (la pubblicazione da quotidiana è poi divenuta con periodicità settimanale e ora prendiamo una pausa anche perché siamo in preparazione della Relazione al Parlamento che terremo il prossimo 26 giugno). Si è trattato di un periodo molto complesso in cui però abbiamo avuto la sensazione di esercitare un ruolo perché l’accesso ai dati per dare informazioni era molto utile.

Anche durante il lockdown abbiamo continuato a fare visite: a Rieti, al Cpr di Ponte Galeria, a Santa Maria Capua Vetere, alla Rems di San Nicola Baronia, in provincia di Avellino. Ora, a luglio proseguiremo con le visite. Il garante nazionale non può fermarsi, deve supportare anche i garanti regionali e deve soprattutto tenere fermo il valore che lo sguardo esterno dà come contributo anche a chi opera all’interno di queste difficili strutture privative della libertà personale.

Scarica anche il report del Coordinamento diritti economici e sociali di Amnesty International Italia sulle carceri in Italia nel periodo del lockdown.