Asia meridionale, Covid-19 una minaccia per gruppi vulnerabili e marginalizzati

26 Marzo 2020

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La pandemia rischia di provocare migliaia di vittime in Asia meridionale dove già oltre 600 milioni di persone vivono in povertà, in insediamenti urbani sovraffollati e ora sottoposti a chiusure e quarantene e in cui i servizi sanitari sono terribilmente inadeguati.

I dati aumentano giorno per giorno: il 25 marzo il Pakistan ha segnalato 1026 contagi e 7 morti, l’India 606 contagi e 10 morti. Data la scarsità dei mezzi per effettuare i test, si teme che i numeri reali siano assai più alti.

Chiediamo ai governi dell’Asia meridionale di proteggere i lavoratori che, dovendo stare a casa, perdono le pur magre entrate necessarie per la loro sopravvivenza; le persone che a causa dei conflitti hanno perso le loro case e si trovano ora in campi di accoglienza sovraffollati; i prigionieri stretti nelle celle uno contro l’altro; e gli operatori sanitari che non hanno mai avuto i mezzi richiesti e che ora mettono le loro vite a rischio per salvare quelle altrui”, ha dichiarato in una nota ufficiale Biraj Patnaik, direttore di Amnesty International per l’Asia meridionale.

Accesso all’informazione

La diffusione del Covid-19 è stata accelerata anche dal fatto che le autorità della regione non hanno fornito informazioni accessibili, accurate e basate su prove scientifiche sul virus, su come proteggersi dal contagio e su cosa stiano facendo i governi. Nelle ultime settimane, rappresentanti governativi di alto livello di vari stati hanno minimizzato la crisi, nascosto informazioni sulla sua reale dimensione o addirittura promosso informazioni false sulle conseguenze del contagio. Soprattutto le persone che vivono nelle zone rurali, con bassi tassi di alfabetizzazione, subiscono gli effetti della mancanza di informazioni attendibili.

In Afghanistan le informazioni arrivano in modo molto lento nelle zone interne o in quelle ancora al centro del conflitto. L’accesso alle cure mediche e ai test è generalmente scarso ma le donne e le ragazze che non vivono nelle grandi città rischiano di essere lasciate indietro, soprattutto nei casi in cui tradizioni locali dure a morire impediscono loro di rivolgersi alle strutture sanitarie.

Nella zona di Cox’s Bazar, in Bangladesh, dove vivono centinaia di migliaia di rifugiati rohingya e dove è stato registrato il primo caso di Covid-19, si è scatenato il panico a seguito della diffusione di false voci sulla messa a morte di chiunque contraesse il virus.

Rifugiati e sfollati interni

Le autorità degli stati dell’Asia meridionale hanno degli obblighi non solo verso i propri cittadini ma anche nei confronti di tutte le persone che si trovano sotto la loro giurisdizione, come i rifugiati e i richiedenti asilo. La regione ospita una delle più grandi popolazioni di rifugiati del mondo, tra i quali tre milioni di afgani in Pakistan (tra ufficiali e non registrati) e oltre un milione di rohingya in Bangladesh.

Il conflitto ancora in corso in Afghanistan ha prodotto oltre due milioni di sfollati interni, distribuiti tra vari campi, situati spesso in zone remote del paese e visitati occasionalmente da cliniche mobili. Le persone sono costrette a fare lunghi percorsi per cercare acqua e cibo. La vita per le donne è particolarmente ardua. In più, stanno tornando in patria migliaia di afgani espulsi da altri stati, tra cui il vicino Iran ma anche diversi paesi europei.

La distanza fisica è letteralmente impossibile da rispettare nei campi per i rohingya del Bangladesh. In quello di Kutupalong le tende sono ammassate una accanto all’altra. I rifugiati devono attraversare tutta la lunghezza dei campi per avere accesso a servizi fondamentali, non ci sono presidi medici di emergenza, il personale sanitario è assai limitato e le medicine a disposizione sono insufficienti, specialmente per le donne.

Lavoratori precari

La vasta maggioranza dei lavoratori dell’Asia meridionale – venditori di strada, operatori ecologici, fiorai, contadini delle piantagioni di tè, pescatori, facchini, cuochi, lavoratori domestici, operai delle costruzioni ecc. – vive nell’economia informale, spesso rimediando occupazioni a giornata. Molti sono migranti, lontani dalle loro famiglie. Secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro, il settore informale interessa “circa l’80 per cento del totale della forza lavoro” della regione.

Coi provvedimenti di chiusura, queste persone si vedranno private dei mezzi di sostentamento. In una regione dall’economia a basso reddito e con scarsi sistemi di sicurezza sociale in essere, rischiano di avere un’assistenza inadeguata o di non averne affatto.

La scorsa settimana nello Sri Lanka, non appena è stato proclamato il coprifuoco, si sono formate lunghissime code fuori dai banchi dei pegni, a conferma delle drammatiche condizioni di vita di queste persone.

In alcuni stati della regione come India, Sri Lanka e Pakistan, sono state annunciate misure di stimolo economico ma destinate prevalentemente alle industrie. C’è invece bisogno di provvedimenti specifici per i lavoratori del settore informale che vadano incontro al loro diritto alla sicurezza sociale, in modo che possano avere uno standard di vita adeguato.

Nessuno dovrebbe essere costretto a scegliere tra fame e contagio. Le economie dell’Asia meridionale dipendono dalla fatica quotidiana di lavoratori costretti a vivere nell’insicurezza e in condizioni di lavoro spesso inadeguate. Gli stati devono proteggerli nel migliore modo possibile durante questa crisi e, nel lungo periodo, la solidarietà internazionale dovrà contribuire alla ripresa. Questa è una pandemia globale che necessita di una soluzione globale“, ha sottolineato Patnaik.

Operatori sanitari

Secondo la Banca mondiale, ciascuno degli otto stati dell’Asia meridionale ha uno dei più bassi tassi mondiali di dottori per abitanti: si va dallo 0,3 ogni 1000 persone in Afghanistan a 1 ogni 1000 persone nelle Maldive, in Pakistan e nello Sri Lanka. Anche nella migliore delle situazioni, ci sono troppi pochi medici con troppe poche risorse.

Gli operatori sanitari di Afghanistan, Bangladesh, India, Nepal e Pakistan hanno già denunciato l’assenza di strumenti protettivi per poter trattare i pazienti colpiti dal Covid-19. In Bangladesh sono stati isolati i primi 10 medici che presentano sintomi, in Pakistan ne è morto uno. Questi numeri sono destinati purtroppo ad aumentare: se non hanno strumenti di protezione adeguati, è difficile che possano proteggere anche le loro famiglie.

Prigionieri

Le prigioni dell’Asia meridionale sono notoriamente sovraffollate disumane, tra scarsità di servizi igienico-sanitari e inadeguata circolazione di aria fresca. In Bangladesh, la popolazione carceraria è il doppio rispetto alla capienza e il 70 per cento dei detenuti è in attesa di giudizio. In Nepal la percentuale di detenuti rispetto alla capienza è del 150 per cento.

All’inizio del 2020 una commissione giudiziaria d’inchiesta del Pakistan ha denunciato il limitato accesso alle cure mediche nelle prigioni, segnalando che 1823 detenuti soffrivano di epatite, 425 di Hiv e 173 di tubercolosi, malattie contratte all’interno delle carceri.

La scorsa settimana nello Sri Lanka, nel corso di una rivolta relativa al Covid-19 scoppiata nella prigione di Anuradhapura, sono stati uccisi due detenuti e altri sono rimasti feriti. Il primo caso di contagio in una prigione del Pakistan è stato registrato in un centro di detenzione di Lahore, dove i detenuti sono tre volte superiori alla capienza massima e la maggioranza di essi è in attesa di processo.

Alcuni stati hanno annunciato provvedimenti di segno positivo, come il rilascio di alcuni detenuti in India, Pakistan, Nepal, Sri Lanka e Bangladesh ma queste misure devono essere ancora messe in pratica o applicate in maniera completa.

Le prigioni dell’Asia meridionale sono una macchia sulla coscienza della regione. Sono luoghi notoriamente sovraffollati, violenti, insalubri e privi di servizi sanitari, in cui i detenuti sono ad alto rischio di contagio. Per ridurre il sovraffollamento dovrebbero essere prese urgentemente in considerazione misure quali il rilascio degli anziani, di quelli che potrebbero avere diritto alla libertà vigilata e che non costituiscono più una minaccia per la società, di quelli incriminati ma ancora in attesa di processo. Per tutti gli altri dovrebbero essere garantiti gli stessi standard di cure mediche disponibili per il resto della popolazione, compreso il trasferimento in strutture mediche specializzate quando necessario”, ha concluso Patnaik.