Lettera da Idlib al mondo

7 Maggio 2019

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Nell’ottavo anniversario dall’inizio della crisi siriana, siamo di fronte a una delle più gravi emergenze umanitarie del secondo dopoguerra: oltre l’80% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà, 11,7 milioni di persone in questo momento dipendono dagli aiuti umanitari per andare avanti un giorno dopo l’altro.

In questo momento oltre un terzo dei siriani all’interno del paese non ha più una casa e 2 milioni di bambini non possono studiare perché una scuola su tre è stata distrutta.

Da questo territorio dove non resta che cenere si alza una voce – delicata e incisiva al tempo stesso – quella di chi è rimasto in Siria tentando di portare avanti la propria vita, anche dove la vita non si vede più.

Mohammad Yusra (nome modificato per proteggerne la sicurezza) è un operatore umanitario siriano che attualmente vive nella provincia di Idlib, intrappolato tra le forze filogovernative e il confine chiuso con la Turchia.

In una bellissima lettera, racconta la vita in Siria. Ancora.

C’è un detto popolare che spesso usiamo qui: “Se senti gli spari sei al sicuro, perché sei ancora vivo per ascoltarli”.

In Siria, si è in prima linea ovunque. La lotta non ha confini qui. Nel mio piccolo villaggio, ho visto un aereo bombardare una casa a 200 metri di distanza.

Ogni volta che i miei figli sentono gli aerei, cercano di arrampicarsi sul tetto per vedere dove colpiranno. Le case qui non sono molto alte, di solito hanno un piano solo. Io e mia moglie li facciamo nascondere in cucina, sotto il lavandino. È tutto ciò che possiamo fare per proteggerli.

Da febbraio, gli aerei hanno di nuovo bombardato la città di Idlib, dove sono radunati molti civili. Hanno colpito scuole e altri edifici. Migliaia stanno fuggendo. Sono passati otto anni e siamo ancora sotto i bombardamenti.

Idlib, prima della guerra, era un luogo un po’ trascurato, ma eravamo ben istruiti. I nostri insegnanti andavano a lavorare anche in altre parti della Siria. Abbiamo studiato le guerre in Europa e sapevamo molto sulla politica mondiale.

Per un periodo ho guardato Channel 4 per imparare l’inglese, lo faccio ancora. È su Channel 4 che ho osservato alcuni confronti sulla Brexit, ho visto come le persone abbiano il diritto di esprimere le loro opinioni.

Lasciare la Siria non è solo lasciare un paese. Stai lasciando una patria, una comunità. E naturalmente a chiunque se ne vada potrebbe non essere permesso di tornare.

Qui in Siria non abbiamo questa libertà di parlare del governo. C’è molta omertà e ad ogni domanda siamo costretti a rispondere come vorrebbe il governo.

Ho scelto di rimanere. All’inizio pensavamo che la guerra non sarebbe durata a lungo. Con l’andare del tempo ho pensato di fuggire in Olanda, sperando che i nostri figli potessero ricevere un’istruzione lì. Ci ho provato, ma sono stato fermato.

Dopo ciò, mia moglie mi ha convinto che dovremmo restare, indipendentemente da come si evolverà la situazione in Siria. Molti dei miei amici se ne sono andati. Ma siamo rimasti.

Penso che la maggior parte dei miei colleghi e io sentiamo il dovere di rimanere e lavorare per il nostro paese. Partecipare e spianare la strada per un cambiamento democratico.

Lasciare la Siria non è solo lasciare un paese. Si lascia una patria, una comunità. E naturalmente a chiunque se ne vada potrebbe non essere permesso di tornare.

La parte più difficile della vita a Idlib è cercare di provvedere alla tua famiglia. Non abbiamo avuto elettricità per otto anni. La mia famiglia conta su alcuni pannelli solari e una batteria per auto quando piove. È così che riscaldiamo l’acqua per fare il bagno ai bambini. Trovare un modo per tenerli puliti è difficile. Indossano più strati di vestiti in inverno perché fa freddo, e tutti quei vestiti devono essere lavati a mano.

All’inizio della guerra, non eravamo molto bravi ad adattarci alla nuova realtà. Non sapevamo come cuocere il pane, per esempio. Siamo sempre andati al panificio. Mia moglie e io abbiamo imparato a cuocere – solo piccoli rotolini – su una stufa a legna.

È un po’ più facile ora. Le famiglie si aiutano a vicenda e noi evitiamo le città per paura degli attacchi aerei. Invece, nei villaggi sono stati aperti piccoli negozi che vendono carburante, pane, verdure e telefoni cellulari.

Ero un insegnante di scuola secondaria prima della guerra. Ho anche lavorato nel settore edile durante le vacanze estive, per risparmiare denaro extra. Mi sono sposato, ho costruito una casa, ho perfino comprato una macchina. Conosco il valore sia dell’educazione che del lavoro.

Come compensiamo qualcuno per aver distrutto i suoi ricordi, le sue fotografie e i suoi vestiti? 

Alcuni anni fa ho incontrato un uomo che era un erudito religioso.

Chiedendogli dei suoi libri, scoppiò in lacrime. 

La sua biblioteca era stata saccheggiata. I suoi libri erano stati venduti per le strade quasi per niente. 

Penso di essere una persona fortunata. 

Ho incontrato tanti sfollati e ho visto come soffrono. Ma non si tratta solo dei membri della famiglia che sono stati uccisi. Come compensiamo qualcuno per aver distrutto i suoi ricordi, le sue fotografie e i suoi vestiti? In ogni casa ci sono simboli e ricordi che non possono essere sostituiti – una persona è fatta dai suoi ricordi. 

Molte persone hanno una brutta immagine di noi qui a Idlib. Pensano che accogliamo i terroristi e meritiamo di essere puniti per questo. Manon è così, non importa quale fazione abbia il controllo, non cambia molto per me. Questa non è la mia battaglia.

Spero che presto ci sarà la fine di questa guerra brutale e che i responsabili saranno giudicati tali. Spero che la mia famiglia e io non dovremo fuggire.

Ciò che è chiaro è che noi siriani non abbiamo alcun controllo. Sono le superpotenze che stanno decidendo l’esito di questa guerra. 

Voglio dire al mondo: siamo qui. Abbiamo paura di Assad e delle sue milizie. Sentiamo di essere stati traditi da altri governi. Abbiamo visto alcune manifestazioni in Europa su ciò che sta accadendo qui, ma non è abbastanza. 

Ci hanno ucciso e ci stanno uccidendo e tu stai vedendo questo, stai vedendo le foto. Ma nulla è stato fatto.

Ogni giorno si celebrano i funerali. Ogni giorno vediamo corpi a terra. Le vittime non sono numeri. Conosciamo i loro nomi, le famiglie, persino i loro volti.

È difficile credere che ci siano persone che bombardano una scuola con bambini dentro. Ma non abbiamo tempo per piangere. Dobbiamo tornare alla vita.

La moglie del mio amico dice “eravamo soliti essere gioiosi e festeggiare ogni volta che c’era una possibilità, ma ora abbiamo perso la capacità di sorridere”.

Guardo fuori i miei figli e i bambini degli altri; parlano le parole della guerra: “esercito”, “milizie di Assad”, “rivoluzionari”.

Un altro padre mi chiede: “Come li convinceremo ad abbandonare queste parole dopo la guerra?”