© Hussein Tallal
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Non avrebbe dovuto trascorrere in carcere neanche un minuto. E invece Mahmoud Abu Zeid, detto “Shawkan” ci ha passato cinque anni e 25 giorni trascorsi in carcere, più altri sei mesi per il mancato risarcimento di non meglio precisati danni fatti in prigione.
Poi, dal 16 febbraio, c’è stata la via crucis del passaggio da una stazione all’altra di polizia per gli adempimenti procedurali pre-rilascio. E infine, il 4 marzo, Shawkan è uscito dalla prigione di Haram, nel quartiere dove viveva prima del 14 agosto 2013, quando l’avevano arrestato.
Quel giorno si trovava, per conto dell’agenzia fotografica Demotix di Londra, in piazza Rabaa al-Adawiya, al Cairo, a documentare il violentissimo sgombero di un sit-in della Fratellanza musulmana.
Fu il peggiore massacro della recente storia egiziana, con centinaia e centinaia di morti in un solo giorno.
Per oltre cinque anni il maxiprocesso che lo vedeva alla sbarra con altri 700 detenuti è andato avanti di rinvio in rinvio.
Su Shawkan pendevano accuse che avrebbero potuto costargli una condanna a morte: adesione a un’organizzazione criminale, omicidio; tentato omicidio, partecipazione a un raduno a scopo di intimidazione, per creare terrore e mettere a rischio vite umane, ostacolo ai servizi pubblici, tentativo di rovesciare il governo attraverso l’uso della forza e della violenza, l’esibizione della forza e la minaccia della violenza, resistenza a pubblico ufficiale, ostacolo all’applicazione della legge e disturbo alla quiete pubblica.
Accuse ovviamente infondate. Tant’è che a un certo punto, il 18 settembre dello scorso anno, l’hanno dovuto ammettere anche i giudici.
Per aver fatto il suo lavoro, Shawkan ha languito cinque anni e mezzo in carcere, cui ora seguiranno altri cinque anni di libertà condizionata,con alcuni probabili obblighi come quello di trascorrere delle notti in una stazione di polizia.