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di Kumi Naidoo, Segretario generale di Amnesty International
Il 10 dicembre 2018 il mondo ha celebrato il 70° anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani. Questo documento straordinario, adottato nel 1948, mise allo stesso tavolo la comunità internazionale in una dimostrazione di unità senza precedenti, per definire per la prima volta una carta dei diritti che sarebbe stata applicata a tutte le persone e per sferrare un colpo dritto al cuore delle ingiustizie del mondo.
A 70 anni di distanza, assistiamo tuttavia a un’epoca in cui un’economia globale indebolita ha lasciato spazio all’ascesa di personaggi politici boriosi, che utilizzano atteggiamenti machisti, misoginia, xenofobia e omofobia, per fornire l’immagine del leader come “uomo forte”. Uno scenario che riflette quello dell’ascesa del fascismo negli anni Trenta, preceduta da un periodo di recessione economica e culminata negli orrori dell’Olocausto; la risposta a tutto ciò fu la Dichiarazione universale con il suo proclama: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”.
Nel 2018 abbiamo visto molti di questi “leader forti” cercare d’indebolire il principio stesso di uguaglianza, pietra angolare delle norme sui diritti umani. Hanno cercato di demonizzare e perseguitare le comunità già emarginate e vulnerabili. Tuttavia, quest’anno nessuna lotta per l’uguaglianza ha avuto tanta risonanza e visibilità quanto quella per i diritti delle donne.
Nel 2018, in tutto il mondo le donne sono state in prima fila nella battaglia per i diritti umani. In India e Sudafrica, sono scese a migliaia nelle strade per protestare contro l’endemica violenza sessuale. In Arabia Saudita e Iran, attiviste per i diritti umani hanno rischiato l’arresto per avere sfidato rispettivamente il divieto di guidare un veicolo e l’obbligo d’indossare l’hijab (velo islamico). In Argentina, Irlanda e Polonia, le donne hanno partecipato a manifestazioni di massa per chiedere l’abrogazione di leggi oppressive sull’aborto. Negli Usa, in Europa e in Giappone, milioni di donne hanno aderito alla seconda marcia delle donne promossa dal movimento #MeToo, per chiedere la fine della misoginia e delle molestie. Nel nord-est della Nigeria, migliaia di donne sfollate si sono mobilitate per chiedere giustizia per gli abusi che hanno subìto, per mano dei combattenti di Boko haram e delle forze di sicurezza nigeriane.
Il crescente potere delle donne che fanno sentire la loro voce non è certo da sottovalutare. Sotto la spinta delle forti richieste di rispettare finalmente i diritti delle donne, i cittadini irlandesi hanno votato a grande maggioranza a favore dell’abolizione del divieto d’aborto. In Arabia Saudita, alle donne è stato finalmente concesso il diritto di guidare un veicolo. In Islanda e Svezia, sono state approvate nuove leggi che considerano stupro qualsiasi rapporto sessuale senza consenso. Negli Usa, le accuse di molestie sessuali hanno scosso profondamente il mondo patriarcale di Hollywood, sfidando decenni d’impunità.
Nonostante queste conquiste, non possiamo celebrare l’incredibile aumento dell’attivismo delle donne senza riconoscere il perché le donne sono costrette a lottare così duramente. La cruda realtà è che, nel 2018, molti governi hanno appoggiato apertamente politiche e leggi che sottomettono e opprimono le donne.
Nel mondo, il 40 per cento delle donne in età fertile vive in paesi in cui l’aborto è ancora soggetto a gravi restrizioni e circa 225 milioni di donne non hanno accesso a contraccettivi di ultima generazione. Nonostante l’attivismo diffuso, El Salvador si rifiuta di depenalizzare l’aborto in qualsiasi circostanza e il senato argentino ha votato a stretta maggioranza contro una proposta di legge che avrebbe legalizzato l’aborto su richiesta nelle prime 14 settimane di gravidanza. Contemporaneamente, i politici polacchi e guatemaltechi continuano a promuovere l’approvazione di norme più rigide in materia di aborto, mentre negli Usa, i tagli dei finanziamenti alle cliniche per la pianificazione familiare hanno messo a repentaglio la salute di milioni di donne.
La violenza di genere colpisce in modo sproporzionato le donne, le persone transgender e quelle non conformi alle categorie di genere ma questa resta una crisi dei diritti umani che il mondo politico continua a ignorare. A luglio, la Bulgaria ha scelto di non ratificare la Convenzione di Istanbul, un trattato europeo per prevenire e combattere la violenza domestica e la violenza contro le donne, dopo che la sua Corte costituzionale l’aveva dichiarata “incostituzionale”. Ad agosto, il Lussemburgo è diventato il 33° stato a ratificare la Convezione. Tuttavia, anche se un numero relativamente elevato di stati europei ha accettato di rispettarla, le statistiche continuano a dipingere una triste realtà.
Secondo i dati, nel mondo una ragazza su 10 ha già subìto un’aggressione sessuale prima dei 20 anni, mentre soltanto un terzo dei paesi dell’Unione europea riconosce che un rapporto sessuale senza consenso equivale a stupro. In altre zone, Amnesty International ha raccolto le testimonianze di donne provenienti da aree di conflitto in Nigeria, Iraq, Sud Sudan e Myanmar, che hanno descritto gli orrori della violenza sessuale cui erano state sottoposte, spesso dalle stesse forze di sicurezza del loro paese.
In tutto il mondo, le donne che subiscono forme di discriminazione che si sovrappongono (tra cui discriminazioni basate sull’orientamento sessuale, l’identità di genere, l’appartenenza etnica o razziale o la condizione socioeconomica) si trovano ad affrontare ulteriori violazioni specifiche. In Somalia, spesso le donne con disabilità sono soggette a matrimoni forzati e sono vittime di violenza domestica. Le donne native del Canada hanno sei volte più probabilità di essere vittime di omicidio rispetto alle non native. Noi, attivisti impegnati nei movimenti per i diritti delle donne e per i diritti umani in generale, dobbiamo impegnarci di più per far emergere quanto queste forme di discriminazione sovrapposte incidano sulla vite delle persone e per garantire che le voci dei più emarginati siano ascoltate.
In risposta alla resistenza e all’attivismo delle donne, in tutta l’America Latina e in Europa, i gruppi di estremisti che negano i diritti hanno adottato una nuova tattica di repressione: etichettare le femministe e gli attivisti Lgbti come “sostenitori dell’ideologia di genere”, che, a loro dire, rappresentano un’autentica minaccia ai “valori del matrimonio e della famiglia”. Questi gruppi spesso cercano di ridurre al silenzio le donne e le persone Lgbti impegnate nella difesa dei diritti umani, anche lanciando vere e proprie campagne di molestie online. Così, le persone che indipendentemente dal loro genere sono impegnate contro la disuguaglianza di genere devono anche combattere un’ulteriore battaglia, quella per difendere il loro diritto a esprimersi liberamente.
Una ricerca condotta da Amnesty International durante l’anno, uno dei primi studi sul rapporto tra diritti umani e violenza contro le donne online, conferma quello che molte donne sanno già: le piattaforme online hanno dimostrato di poter essere sia una benedizione che una maledizione. Aziende e governi non hanno provveduto a proteggere in modo adeguato le utenti da una valanga di molestie online, spingendo così molte donne in primo luogo ad autocensurarsi o addirittura ad abbandonare del tutto queste piattaforme. Per contro, in alcune parti del mondo i social network hanno dato più risalto alle richieste delle donne per la parità nei luoghi di lavoro, una battaglia che infuria da decenni, o anche da secoli, ma che ha ottenuto durante l’anno una rinnovata attenzione verso le richieste di ridurre il divario salariale di genere, che a livello globale corrisponde attualmente al 23 per cento. In tutto il mondo, le donne non sono solo pagate in media meno dei loro colleghi maschi ma hanno anche una maggiore probabilità di svolgere un lavoro non retribuito o di essere impiegate nell’economia sommersa, con impieghi precari o non qualificati.
Questo è per lo più dovuto a norme sociali che attribuiscono alle donne e al loro lavoro un grado inferiore. Senza parità sul posto di lavoro, le donne continueranno a essere le più penalizzate da una ripresa economica mondiale ancora incerta. Nel Regno Unito, secondo i dati, le donne hanno sopportato l’86 per cento del peso delle misure di austerità adottate dal 2010, a causa dei tagli ai sussidi sociali.
Nella storia, le donne sono per lo più rimaste intrappolate in un circolo vizioso di discriminazioni dettate da gerarchie di potere e norme legate al genere. La partecipazione politica delle donne è essenziale per combattere le legislazioni che consolidano le disuguaglianze sociali ed economiche. Nonostante il numero record di donne candidate a ricoprire una carica pubblica nel 2018, i passi avanti rimangono terribilmente lenti. Attualmente, solo il 17 per cento di tutti i capi di stato o di governo e il 23 per cento dei parlamentari nel mondo sono donne.
Il 70° anniversario della Dichiarazione universale ci offre un’occasione per riflettere su quella che fu una straordinaria conquista per tutte le donne e tutti gli uomini coinvolti nella sua stesura. Ci volle tutta la forza di persuasione di una donna, Hansa Mehta, per ottenere la riformulazione dell’art. 1 della Dichiarazione da “Tutti gli uomini nascono liberi ed eguali” a “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali”. E Hansa Mehta aveva ben motivo di temere che le donne rimanessero escluse dal sistema di protezione dei diritti umani. Oggi, 70 anni dopo, stiamo ancora lottando affinché i diritti delle donne siano riconosciuti come diritti umani. Una delle iniziative più urgenti che i governi devono intraprendere per affrontare la situazione è impegnarsi concretamente nell’applicare la carta internazionale dei diritti delle donne, cioè la Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne, e garantire, attraverso la sua implementazione sul piano legislativo nazionale, che le donne siano libere dalla discriminazione e dalla violenza.
La Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne è il secondo trattato sui diritti umani più ratificato, con un totale di 189 stati aderenti. Ma i governi devono smettere di parlare a vuoto dei diritti delle donne. Se l’evidente aumento dell’attivismo delle donne di quest’anno dimostra qualcosa, è che la gente non è più disposta ad accettare tutto questo. E neppure noi. Nel 2019, Amnesty International farà ancora più pressione sui governi affinché ritirino con effetto immediato le loro riserve alla Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne e compiano passi coraggiosi, necessari per la piena realizzazione di questi diritti. Ora più che mai, dobbiamo camminare a fianco dei movimenti femminili, amplificare le voci delle donne in tutta la loro varietà e lottare per il riconoscimento di tutti i nostri diritti. Spero che vi unirete a noi.